Sul baco degli imputati la critica gastronomica, ma anche i nuovi modi di comunicare…
Doveva essere l’imputato, ma alla fine la sentenza l’ha emessa lui: Edoardo Raspelli. Si è concluso così il “Processo a Raspelli” allestito sabato mattina al Salone del Gusto di Torino dal Consorzio del Prosciutto di San Daniele. Cinque critici affermati nel panorama enogastronomico italiano riuniti in giuria: Marco Bolasco, Giocchino Bonsignore, Michele Di Carlo, Alex Guzzi e Francesca Negri. Gli irresistibili Fede e Tinto conduttori di Rai Radio 2 Decanter nel ruolo di “cancellieri” a tener le fila di questo insolito talk show allestito per una occasione importante: i 35 anni di professione nel settore di Edoardo Raspelli. Sul banco degli imputati in realtà c’era tutto il giornalismo enogastronomico italiano, da molti messo sotto diversi capi di accusa. Anche perchè il conduttore di Melaverde ha potuto essere presente solo in voce e in effige in quanto costretto ad un repentino ricovero ospedaliero per una infezione ad una gamba. Ma la sua opinione, dopo un’ora di dibattito, è stata definitiva: “Sono molto amareggiato – ha spiegato in diretta dal suo letto – la competenza è sempre più difficile da trovare sulla stampa, la crisi economica obbliga i giornali a servirsi di collaboratori meno preparati e il settore riflette la mediocrità di altri campi del giornalismo”. Raspelli ha ricordato inoltre anche i suoi anni di esordio come cronista: è stato il primo ad arrivare sul luogo dell’omicidio del commissario Calabresi. Una lezione di giornalismo che si è rispecchiata anche nella sua attività di critico gastronomico.
“Serietà, consapevolezza e competenza” questa sembra essere dunque la regola auspicata da tutti gli interventi a cominciare da quello di Marco Bolasco, direttore editoriale di Slow Food che ha insistito sui limiti della comunicazione di settore: “Spesso quando parliamo di enogastronomia non sappiamo bene di cosa stiamo parlando. La critica enogastronomica in Italia è un’attività relativamente recente e non ha ancora sviluppato linguaggi ben definiti”
Anche Alex Guzzi, critico del Corriere della Sera, percepisce un cambiamento di prospettiva nel pubblico: “Fino a pochi anni fa il settore enogastronomico coinvolgeva un numero limitato di persone, adesso tanto pubblico è diventato più desideroso di competenza. Me ne sono accorto nel 2000 quando mi è stato chiesto di puntare nelle mie recensioni più sul cibo che non sull’atmosfera dei luoghi. Certo c’è ancora molta approssimazione e su un vasto numero di pareri tanti sono dati da critici improvvisati.”.
“Ogni professionista risponde alla propria coscienza – continua il discorso Gioacchino Bonsignore del TG5 – oggi che l’enogastronomia è diventata un fenomeno di moda tutti si aspettano un riflusso del fenomeno, ma è improbabile: non dimentichiamoci che il giornalismo enogastronomico ha esercitato un ruolo strategico nella cultura del territorio, permettendo la crescita di un settore trainante per il nostro paese come quello agroalimentare. Poi, in generale, per fare buona critica enogastronomica bisogna essere in ogni caso bravi giornalisti capaci di raccontare delle storie, come dimostra proprio il caso di Raspelli”.
Su un’altra cosa la giuria è concorde: regolamentare il settore con un albo professionale è decisamente controproducente.
Michele di Carlo “Filosofo del Gusto” pensa piuttosto a nobilitare gli animi: “Abbiamo bisogno di diffondere l’orgoglio della nostra cultura agroalimentare senza barriere. C’è una nuova generazione di esperti di enogastronomia che sta crescendo con una ottima preparazioni e con tutto un bagaglio di conoscenze e linguaggi che noi non possedevamo”
Un parere vicino a quello di Rita Serafini dell’Associazione Italiana Consorzi Geografici (il “consorzio dei consorzi” come l’ha definito Fede): “L’Italia ha un patrimonio eccezionale di 213 Prodotti Dop e IGP, ma l’esigenza principale è quella di far percepire l’humus di quello che c’è dietro ogni sapore, dal territorio al lavoro della gente”.
Va in questa direzione anche la conclusione dei giurati che è affidata a Mario Cichetti Direttore del Consorzio del Prosciutto di San Daniele. “Non trattateci però come prodotti folcloristici. Essere Legati alle tradizioni non vuol dire essere arretrati. Nei nostri prodotti vogliamo che tutti possano ritrovare le radici comuni di un patrimonio che appartiene ai nostri padri e alle nostre nonne, in una terra che fino a pochi decenni viveva in maggioranza di agricoltura.”
Tutte le foto sono di Sergio Solavaggione, con cui mi complimento e che ringrazio!
Altre curiosità dallo stand del Consorzio del Prosciutto di San Daniele al Salone del Gusto.
Uno degli hobby preferiti dal visitatori è “la foto con sfondo di prosciutti di San Daniele”: colpisce vedere quanti si soffermano increduli a guardare le decine di prosciutti – peso medio 10/11 Kg – appese alle rastrelliere. La domanda che si legge negli occhi è: saranno finti? E fanno fatica a credere che invece sì, sono proprio veri nonostante le ripetute conferme che ricevono. E così una volta convinti che si tratta di uno spettacolo quasi irripetibile scatta la foto ricordo.
25 incontri con il pubblico del Salone: 5 per ciascun giorno di durata, tra degustazioni, lezioni di cucina, istruzioni per l’uso, incontri di approfondimento, aperitivi in musica, giochi. Tante e varie le attività organizzate dal Consorzio per portare l’ospitalità e la maestria del gusto friulane nel cuore del Salone torinese che ogni due anni chiama a raccolta il popolo degli appassionati. Al termine saranno oltre 500 le persone coinvolte senza contare quelle che partecipano entusiaste agli aperitivi in musica delle 19.00.
La “processione” è praticamente continua: quando le rosse Berkel sul bancone dello stand del Consorzio del Prosciutto di San Daniele cominciano ad affettare si crea immediatamente una fila ininterrotta di persone che aspettano ordinatamente di ricevere il “viatico” di una gustosa, morbida, rosea fetta di San Daniele . Si stima chenei 5 giorni del Salone saranno “affettati” oltre 100 prosciutti pari a qualcosa come 500.000 fette!