La storia (che non c’è) nel bicchiere

Non c’è pubblicità od operazione di marketing che batta, per il vino, i consigli dei sommelier. Sono loro i primi ambasciatori del nettare di Bacco, loro che consigliano il cliente inesperto e sanno “tentare” quello più smaliziato, sono loro che fanno la carta dei vini e che propongono le bottiglie che ritengono più interessanti. Il ruolo del sommelier, insomma, è stato sempre fondamentale e strategico, ma in un momento di crisi profonda del mondo del vino come quella che stiamo vivendo lo diventa ancora di più. Certo, quel linguaggio da esperti che si dice allontani la gente, curioso al punto da diventare anche oggetto di caricature da cabaret, andrà rivisto, ma questo, ora, è il problema minore.

Per un sommelier italiano il massimo riconoscimento – l’Oscar, se si parlasse di cinema – è il Premio Migliore Sommelier Professionista d’Italia  dell’Associazione italiana sommelier (Ais), che quest’anno è stato lanciato con una novità, annunciata così dal presidente Ais Terenzio Medri: «Il Trofeo assume la denominazione ufficiale di “Premio Franciacorta” per sottolineare ancor più la sua elevata valenza, unendosi anche nel nome con una delle più importanti e qualitativamente elevate realtà vitivinicole italiane». Due domande sorgono spontanee: la prima è se è stato fatto (non mi risulta) un bando di concorso per aggiudicarsi l’abbinamento del proprio nome a quello del premio; la seconda è come sia possibile che i primi promotori dei vini italiani associno il loro più ambito award alla denominazione di un’unica tipologia enoica, seppur importantissima ed eccellente come Franciacorta. Proprio i sommelier e l’Ais, che dovrebbero essere bipartisan e, semmai, lasciarsi influenzare solo dal loro personalissimo palato, con questa mossa sembrano poco “enologicaly correct”, per non dire “politicaly correct”. Cosa succederebbe se gli hollywoodiani Oscar del cinema diventassero “Oscar – Steven Spiebelrg” o Paramounth Pictures?

Chapeau, invece, al Consorzio Franciacorta, che è riuscito a mettere in campo una straordinaria operazione d’immagine, perché all’Ais sono iscritti in oltre 30mila e se già il Franciacorta era molto conosciuto e proposto (spesso come unico spumante metodo classico italiano nelle carte dei vini), ora lo sarà ancora di più. E qui approdiamo alla nota dolente dell’immagine dei vini trentini, già zoppicante ed ora tutt’altro ancora più minata dalle querelle degli ultimi tempi (vedi La Vis e Feudi Arancio di Mezzacorona). ,  Un esempio su tutti, il TrentoDoc, che un giorno in una chiacchierata confidenziale con un esperto del settore ho sentito definire come «un vino da non bere con l’amante».

Ma il problema reale è che non c’è una strategia della realtà del vino locale delle quantità, cioè sostanzialmente quello delle cantine sociali, che in tutti questi anni non hanno fatto altro che estirpare e ripiantare vitigni per correre dietro alle mode, facendo finta di non sapere che il vino buono lo fa la vigna vecchia e dimenticandosi dei vini autoctoni. Si tratta di strategie e di identità che si vogliono portare avanti con fierezza e coraggio e che vanno definite prima di mettersi a pensare ad un piano di comunicazione. È solo una questione di scelta: fare prodotti di quantità oppure di qualità (per ora rappresentata degnamente, in termini di numero di etichette, solo dai Vignaioli). Non c’è niente di male a scegliere la prima opzione (ma finiamola di parlare di eccellente rapporto qualità/prezzo per i vini trentini), anche se, con i consumi costantemente in calo, probabilmente vincerà il vino buono su quello commerciale.

La ricetta giusta? La dà l’inventore del Brunello di Montalcino, Jacopo Biondi Santi, che ho recentemente intervistato per il numero di agosto del mensile nazionale Vie del gusto. «La crisi è evidente ed è dovuta alla saturazione del mercato, ma non solo. I prodotti attualmente in commercio sono fatti bene, ma non hanno né carattere né zonazione. Bisogna tornare a dare personalità ai propri vini: tutti sono andati dietro alle guide, senza pensare al territorio e quindi facendo prodotti che sono clonabili in tutto il mondo. Un vino zonato sul territorio, invece, non è riproducibile da nessun’altra parte. Ripeto, i produttori dovrebbero tornare a fare il vino delle loro zone, vini in cui si beva il territorio ed in cui la gente riesca così a giustificare anche un prezzo più alto delle bottiglie». Anche questo è fare turismo, ristorazione, ospitalità e cultura.

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Commenti

    • marmaty
    • 5 Agosto 2010

    In questo post sollevi più questioni “spinose”.
    Concordo in parte con la teoria di Jacopo Biondi Santi, solo in parte perchè per Lui il vino zonato è il Brunello che con il Suo nome è conosciuto in tutto il mondo. Provare a fare il vino zonato con un Friulano o un Refosco e renderlo vendibile facilmente nel mercato anche con costo elevato mi sembra “un sogno”. Sono molte le aziende che stanno lavorando in questo senso, nel tempo vedremo….
    Il tema sommelier e premio, spendo una parola. L’A.I.S. lega i premi ai vini vedi “Sangiovese” ecc., e alle aziende se sono sponsorizzati vedi ad esempio il premio Bonaventura Maschio che viene consegnato al Congresso da alcuni anni. Capisco che tu tenga e voglia spronare il Trento Doc per motivi anche di territorio di appartenenza (leggo i tuoi interventi in merito alle varie questioni delle cantine trentine)
    ma non lo leggerei come una discriminazione.
    Comunque la zona del Franciacorta ne sarà sicuramente felice…!!!
    Buona giornata

  1. Non mi sarebbe piaciuto nemmeno se fosse stato legato al TrentoDoc. Il discorso e’ diverso…

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