Doveva esserci una strana malattia in giro.
A prenderla erano gli chef, soprattutto quelli “stellati”, “forchettati” o “incappellati” o gli aspiranti tali. Io, che ero una semplice appassionata e non un’esperta, avevo fatto fatica ad accorgermene, anche per colpa della mia curiosità verso le sperimentazioni culinarie e tutto ciò che erano nuovi abbinamenti e sapori. Adesso, però, ne ero certa: c’era un virus in giro che si manifestava con la progressiva scomparsa dei sapori semplici, seguita dalla perdita di memoria delle ricette tradizionali e dei gusti di un tempo. I casi aumentavano di giorno in giorno in modo preoccupante. Quando il più “grosso” e severo critico enogastronomico italiano, Edmondo Ravelli, aveva iniziato a parlarne i tempi non erano sospetti e io stessa, nella mia inesperienza, avevo un po’ snobbato il suo appello delle tre “t”: terra, tradizione, territo- rio. «Bisogna ritornare ai sapori autentici e puntare sulle tipicità della propria zona», mi aveva detto una sera, sospirando davan- ti a un piatto di spaghetti alla Norma, portati in tavola come specialità dello chef del ristorante alpino che Edmondo aveva deciso di visitare per poi parlarne nella sua rubrica su Il Sole 24 Ore. Quelli erano i miei primi spaghetti alla Norma e li avevo trovati molto buoni, anche se la scelta di servirceli a oltre mille metri di quota e a oltre mille chilometri dalla terra di cui era originaria la ricetta era senz’altro azzardata. Così dissi al mio amico critico che ero d’accordo con lui ma solo in parte, non capendo quello che più tardi avrei compreso di fronte allo stes- so piatto servito in un localino a due passi da Bronte. Ci vollero poi molte altre cene, molti altri sapori, molte altre storie incompiute nel piatto per farmi arrivare a dire che ero ormai stanca di un certo tipo di cucina, quella che invece tanti sognano e in altrettanti osannano. E qui lo so che ci dividiamo in due, come quelli che amano il vino in barrique e quelli che preferiscono il vino in purezza. Facciamo un passo indietro. Ogni volta che decido di andare a cena fuori – se non è per lavoro – è la voglia di un viaggio che mi spinge: un viaggio nei sapori – nuovi o ritrovati – ma anche nella storia di un territorio da fare attraverso la tavola oppure, più semplicemente, un viaggio di relax e coccole culinarie da condividere con qualcuno e dove anche l’atmosfera del locale ha il suo peso. Poi c’è il lato Indiana Jones: andare a caccia di locali nuovi, dove scoprire cucine casalinghe deliziose a prezzi corretti. Un gioco divertente che faccio da quando avevo 18 anni, occupando così tutte le mie domeniche e appuntando ogni visita (con data, biglietto da visita del locale, giudizio generale e piatti che mi hanno colpito) su un quaderno a fogli bianchi a cui ho dato anche un nome, “Girovagando”. Decidi una zona, prendi l’automobile e parti senza un indirizzo preciso. Arrivata sul posto ti guardi in giro, valuti, chiedi consiglio al barista, poi al giornalaio e a qualche passante e quindi designi il prescelto enogastronomico. Sai che tutto è un’incognita e non hai alcuna pretesa: il livello di attesa è basso, ma potresti rimanerne positivamente sorpresa. Diverso è, invece, quando ti siedi a tavola di ristoranti blasonati. Ogni volta che decido di regalarmi una cena a una Stella Michelin (raramente mi capitano le due e mai, fino ad ora, le tre Stelle), le mie aspettative sono, credo inevitabilmente, alte: da uno chef di haute cuisine, che mi presenterà anche una haute addition, mi aspetto che mi stupisca almeno con un piatto, che mi induca a consigliarlo agli amici e che mi faccia venire la nostalgia di tornarci, prima o poi. Ricordo ancora le tagliatelle al cacao con sugo di cinghiale gustato in un noto locale del Casentino, i tortelli di zucca di un microscopico ristorante di Castellaro Lagusello opuure gli scampi marinati di Da Cera a Lughetto, in provincia di Padova. Tutte poesie perfette e indelebili alla memoria, e in molti casi ho provato a replicarne le ricette anche tra i fornelli di casa, talvolta con discreto successo. Tutti piatti, riflettendoci ora, della tradizione, certamente rivisitati, ma con rispetto. Quante volte, invece, capita di alzarsi dal tavolo e avere come ricordo solo il conto, sempre salato? Le capesante alla brace avvolte nel Pata Negra avevano perso qualsiasi sapore, il raviolo ripieno di bur- rata di Andria che sembrava fatto con la più comune mozzarella del supermercato e faceva acqua da tutte le parti, l’hamburger di gamberi che metteva tristezza non solo al palato, il salmerino in corteccia di abete che sapeva di resina, tutti quei finger sweet che sono uguali da Catania a Milano, tutti i carrelli di deliziosi formaggi del famoso Degust di Hansi Baumgartner che però trovi in Alto Adige come in Sardegna. Quando arrivo alla fine di cene di questo tipo, sempre più spesso mi viene da chieder- mi: perché non mi hai fatto una tagliatella fresca al pomodoro e basilico? È un piatto troppo semplice per i tuoi fornelli stellati?
Tornata da New York, questa era una delle idee che mi ron- zavano di più nella testa, così, dopo aver scritto il mio reportage per Spirito Divino, decisi di parlarne con il direttore della rivista gastronomica con cui collaboravo più assiduamente.
«Sei sicura di avere le palle di scrivere una cosa del genere, Cleo?», mi chiese scrutando l’espressione del mio viso da dietro i suoi occhialetti da professore.
«Certo, altrimenti non te ne avrei parlato. E tu?», lo provocai.
«Cinquemila battute, per stasera. Siamo in chiusura del gior- nale e voglio farci la copertina».
«Wow…», fu l’unica cosa che mi uscì. Raccolsi le mie cose e mi diressi verso la porta del suo ufficio per correre a casa a scrivere l’articolo, quando la sua voce mi raggiunse prima che infilassi l’uscita.
«Cleo, questo servizio potrebbe cambiare la tua carriera, nessuno ha mai detto queste cose in modo così esplicito, come vuoi fare tu. Dovrai essere impeccabile. È la tua occasione, vedi di sfruttarla al meglio».
«Lo so Gianni e ti ringrazio, non ti deluderò», gli risposi con un sorriso sicuro, mentre le mani, nascoste in tasca, non smette- vano di tremarmi.
Uscii dalla redazione e andai a lavorare a casa. Aprii una bottiglia di Vitoarturo Fattoria Le Fonti, farcii alcune fette di pane casereccio con la salsa aioli (non conosco cibo da condividere in due più di questo!) e mi misi al computer. In quattro ore avevo finito il mio articolo, lo avevo letto e riletto e, alla fine, avevo trovato il coraggio di mandarlo al mio direttore. A quel punto non restava che aspettare l’uscita della rivista in tutte le edicole d’Italia: ancora tre giorni e avrei saputo cosa ne sarebbe stato di me… L’unica cosa da fare, nell’attesa, era mettersi a cucinare per Roberto. Decisi che quella sera gli avrei fatto uno dei suoi menu preferiti: torrino di melanzana con scampi, tagliatelle fatte in casa con i funghi porcini e tiramisù. Misi a raffreddare una bottiglia di Ruinart Rosé (ecco cosa avevo deciso di farne, per dispetto a Paolo: di farlo diventare il giusto accompagnamento di certe serate particolari di Roberto e me) e incominciai a preparare gli ingredienti. Un paio d’ore più tardi, tutto era pronto per essere messo in tavola. Roberto era già seduto al suo posto ansioso.
«Cosa c’è di buono?», mi chiese mentre osservava compiaciuto la tavola decorata e l’ambiente illuminato solo dalla luce delle candele.
«Leggi il menu», gli risposi indicando il foglio che avevo stam- pato pochi minuti prima.
«Vediamo… Trattoria Da Cleo. Menu del giorno…». Un attimo di silenzio mentre i suoi occhi scorrevano entusiasti l’elenco dei piatti e poi disse: «Mmmh, solo tu riesci a fare il geisha food!»
«Il cosa?»
«Il geisha food, ovvero la dedizione fatta cucina di una donna verso un uomo, che studia ogni tuo gusto e ti adora facendoti mangiare cose inimmaginabili, che si mette ai fornelli solo per te…È l’arte romantica e sensuale del mangiare. E tu sai essere davvero geisha, anche se nessuno se lo aspetterebbe».
«Ah sì?», gli dissi compiaciuta.
«Sì», confermò guardandomi con l’aria di chi non aveva mol- ta voglia di cenare.
«Adesso mangia, al resto ci pensiamo dopo», gli risposi dan- dogli un bacio e strizzandogli un occhio con fare complice.
Dopo il Ruinart Rosé stappammo un Muffato della Sala, con il suo intrigante sapore che racchiude quella nebbia di primo mattino che consente alla muffa “nobile” Botrytis Cinerea di ridurre il contenuto d’acqua dei grappoli, provocando così una maggior concentrazione di zuccheri e aromi. Ma l’abbinamento più sorprendente ci riuscì lontano da piatti e bicchieri, quando sotto le lenzuola la gelatina di Fojaneghe scivolò tra le mie labbra e poi sempre più giù.