Gilles Fallowfield (esperto mondiale di Champagne e bollicine), Marco Sabellico (curatore della Guida Vini d’Italia del Gambero Rosso e fine degustatore di bollicine), Enzo Vizzari (direttore Guide de L’Espresso) e Licia Granello (food editor de La Repubblica) hanno dato vita ieri pomeriggio, nell’ambito della kermesse “Bollicine su Trento” (fino al 13.12.2010 a Trento), ad un vivace dibattito sul mondo delle bollicine.
Fallowfield e la Granello hanno illustrato gli scenari del mercato: 8 milioni di bottiglie e un fatturato di circa 70 milioni di Euro sono i numeri del Trentodoc, 9,5 milioni di bottiglie e 140 milioni di Euro quelli del Franciacorta, 293 milioni di bottiglie e 3,7 miliardi di Euro quelli dello Champagne. Cioè 1,5 milioni di bottiglie di differenza (nella stessa sede due giorni fa avevano detto 9mio di bottiglie per il TrentoDoc…) il doppio del fatturato! In Franciacorta le bollicine raddoppiano gli euro, peggio che alle nozze di Cana! Sorprendenti…
“Al netto del cosiddetto “effetto millennio” (i brindis per il 2000) -ha osservato Fallowfield- dal 1998 al 2008 le bottiglie di Champagne sono passate da 255,8 a 338,8 milioni con un aumento di oltre il 30%. Nello stesso periodo di tempo la crescita del Cava (metodo classico spagnolo) è stata del 42%”. Dopo il 2008 il tracollo. Lo Champagne è sceso fino a 239 milioni. Tuttavia le previsioni per il 2010 lasciano sperare in una ripresa che dovrebbe riportare le vendite oltre i 255 milioni. Nel 2009 le bollicine francesi hanno fatto registrare esportazioni per un volume di oltre 112 milioni di bottiglie. A beneficiare del calo di vendite dello Champagne sono stati in Europa il Prosecco e il Cava i cui consumi nei primi mesi del 2010 hanno messo a segno un +14% circa su base annua. La domanda è sorretta soprattutto dal consumo domestico, mentre si sta riducendo la quota dell’HO.RE.CA. In particolare in Inghilterra nella fascia intorno alle 10 sterline il Prosecco è un temibile competitor del vino da tavola. Due le tendenze che marcano i consumi di questi anni: la preferenza per le bollicine rosé e per i prodotti extra brut (o pas dosé), cioè quelli che non subiscono aggiunta di zuccheri dopo la rifermentazione in bottiglia. “Si tratta di un successo – ha sottolineato Fallowfield – che riflette l’evoluzione delle tecniche di coltivazione e di vinificazione, oggi capaci di proporre al consumatore una bollicina secca, più naturale, meno lavorata, ma non per questo meno piacevole.”
Grande interesse per questo tipo di prodotti viene anche dai Paesi emergenti (B.R.I.C.) che si affacciano oggi con un potere di acquisto sempre maggiore sui mercati mondiali delle bollicine.
“Sono questi mercati a rappresentare la terra di conquista per le bollicine italiane?”, questa la domanda di Licia Granello. “Il problema è proprio questo: vale la pena di chiedersi – ha osservato Enzo Vizzari – se valga veramente la pena di impegnarsi in obiettivi che richiedono risorse sproporzionate rispetto ai risultati conseguibili”. Per Vizzari le strategie vanno attentamente riconsiderate: innanzitutto privilegiare i consumi nazionali, educare il consumatore ad apprezzare il legame fra il prodotto e territorio evitando di ingaggiare battaglie commerciali senza speranza. “Nessun metodo classico italiano ha i numeri per competere sui mercati emergenti con lo Champagne”. Secondo: eliminare il termine “bollicine” che crea confusione fra metodo classico e metodo charmant. “D’altro canto – ha osservato Vizzari – un altro grande problema del metodo classico italiano è proprio quello legato all’identità: Francia è Champagne, Spagna è Cava, l’Italia è un insieme di prodotti con caratteristiche diverse incapaci di emergere e spesso in conflitto fra loro”.
“L’Italia è il Paese delle diversità: ma questo anziché essere un limite deve essere un’opportunità”. Di tutt’altra idea Marco Sabellico che trova in questa caratteristica una delle cifre più autentiche del made in Italy: “Puntare sulle differenze deve diventare una strategia: la fama del made Italy d’altra parte risiede proprio nella capacità di reagire all’omologazione con la valorizzazione delle identità locali”.
Vedo che non c’è tanta voglia di impegnarsi in questo dibattito, eppure ci sarebbe molto da dire e da chiedersi…
Mi pare che per il Trentino le questioni principali siano due:
1.recuperare il terreno perduto nei confronti degli altri competitor sia quali che quantitativamente;
2.progettare una leadership “democratica” con le altre zone vocate per comunicare “unitariamente” le diversità italiane.
Anche se in ritardo, il dibattito sulla prima questione mi pare ora avviato(riduzione rese/DOCG ed elevazione zona di produzione), mentre la seconda langue perchè… la crisi non è abbastanza forte da obbligare le zone a dialogare.
Anche nella spumantistica siamo, infatti, lo specchio del Paese, tutti avanti in ordine sparso per la gioia degli stranieri. Comunicassimo almeno che “Asti e Prosecco …abbracciano il metodo classico” per fare un pò di chiarezza geografica! Fa pena pensare che industriali quali sono gli spumantisti non siano ancora riusciti a concordare su un nome comune: manca loro proprio il “Talento”?
O si pensa che l’obiettivo di triplicare l’attuale produzione si possa raggiungere a suon di contributi pubbli-promozionali?
Vediamo il piano che arriva domani, e di cui tu già saprai tutto caro Angelo…. son proprio curiosa! (ma non ci sarò, sono a Milano… Se me lo fai avere…)