Il "mio" Piano Pedron

Emilio Pedron

Puntare tutto sui vitigni autoctoni e ridare un ruolo centrale ai viticoltori. Parte da questi presupposti il Piano Pedron, o come preferisce chiamarlo lui, “le ipotesi di strategia per rilanciare il comparto del vino trentino”. Per farlo, i punti cardine sono tre: che La Vis dismetta tutti i suoi investimenti e torni a fare la cantina sociale, che Cavit diventi una Spa libera di acquistare vino ovunque, che le cantine sociali trentine (socie di Cavit  e non) creino un nuovo consorzio di secondo livello per commercializzare il loro vino, 100% trentino. Tutto questo, da realizzare al massimo entro la prima metà del 2011.

SCHELFI: MANI AVANTI

“Il tema è delicato ed importante. Al tempo stesso sottolineo quanto effettivamente sia delicato il rapporto con la comunicazione, perché supera non solo i confini del Trentino, ma anche dell’Italia e può portare problemi sui mercati internazionali e scoraggiare i buyer”. Schelfi ha iniziato così il suo intervento al Piano Pedron Day di ieri. “La Federazione della copperative del Trentino ha attivato questo processo non perché ha una sua responsabilità, è stata un’iniziativa delle cantine che, nel bel mezzo della crisi, hanno deciso di chiedere questo coordinamento della Federazione per dar valore aggiunto a un sistema trentino che ha già valore”. Per questo è stato chiesto a Pedron un aiuto, “condiviso dalle cantine, che interloquiscono con un esperto del settore che ha una visione internazionale”. Poi il numero uno di via Segantini mette le mani avanti: “Noi non vogliamo fare gli imprenditori, le imprese sono le cantine e a loro spetta la definizione dei loro ambiti: la Federazione semplicemente si è presa il compito di armonizzare le cose. Nei momenti di crisi internazionale e locale del settore, chi parte prima (e la Cooperazione lo deve farlo per principio, deve essere la prima che mette in moto il cambiamento) trasforma la crisi in opportunità. Per il vino trentino c’è l’opportunità di continuare ad essere il riferimento del settore vinicolo”.

Diego Schelfi al centro

POTERE AI VITICOLTORI

La criticità del sistema cooperativo del vino trentino, per Pedron, è presto detta: “Negli ultimi anni c’è stata poca sinergia tra cantine sociali ed una competizione non positiva. Questo ha determinato incapacità di gestire bene le eccedenze e coordianre bene la produzione, ma anche determinato investimenti sbagliati, inutili o mancanti. Questo porta anche a dei costi di gestione oggi più alti di quelli che dovrebbero essere”. Perché il mercato di oggi non perdona, i costi devono essere ridotti al minimo. “In queste grandi centrali cooperativistiche del vino c’è stata perdita del ruolo fondamentale di viticoltore, che oggi deve tornare al centro del sistema trentino. Per questo, proponiamo la nascita di un organismo centrale (con rappresentatività in proporzione agli ettari), che abbia lo scopo di sviluppare attività tecniche ed economiche dei soci, rapporti con gli enti pubblici, orientare gli investimenti pubblicitari, coordinare le produzioni”. Parte da qui il super consulente trentino Emilio Pedron per delineare le sue linee guida, un incarico richiesto dalle cantine locali ed affidatogli dalla Federazione delle cooperative (per un compenso di 100mila euro). Un organismo centrale che Pedron immagina come il vecchio Comitato vini riammodernato. Insomma, un’ipotesi “vintage”, che però trova riscontro in molti nostalgici.

CAVIT AL CENTRO

Il secondo punto di Pedron riguarda Cavit, “azienda di grande importanza e valore. È pero azienda stretta tra necessità di stare sul mercato e crescere e la necessità di assolvere alle richieste dei propri soci: talvolta non sa a chi dare retta”. La soluzione? “Svincoliamola dal rapporto con i viticoltori – spiega Pedron – facendola diventare una Spa che ritira il vino di cui necessità, non solo dalle cantine trentine, e cerca di avere reddito da distribuire ai soci. Dal canto loro, le cantine socie di cavit e tutte le sociali trentine, dovrebbero riorganizzarsi e far nascere un organismo commerciale in forma di nuovo consorzio di secondo grado per vendere vini di grande qualità prodotti da loro,  un fine ben diverso dalla Spa di Cavit. Cavit oggi non è trasformabile, non si può cambiare per farle vendere vini più pregiati”. Tradotto, i vini del colosso di Ravina sono di qualità medio-bassa: l’eccellenza del Trentino è ancora tutta da creare a livello di cantine sociali. Con questa mossa, Cavit diventerebbe un brand commerciale, in cui convoglierebbero vini da ogni dove. Peccato che il vino trentino in Italia (ad esempio nella grande distribuzione) è Cavit, ma nella sua nuova forma non sarebbe più portabandiera della produzione locale. Oltre alla confusione sul consumatore finale, il rischio è quindi di dover ricostruire un’immagine trentina che così verrebbe praticamente azzerata. Ma non è finita. Il passaggio a Spa funzionerà così: le 11 cantine socie riceveranno eguali quote azionarie che, secondo Pedron, potranno essere utilizzate per sanare i bilanci in rosso di “quelle cantine che hanno percorso strade di sviluppo senza avere dovute coperture finanziarie. Il sistema cooperativistico trentino nel suo insieme contiene le risorse patrimoniali e di gestione per risolvere i suoi problemi: non ho previsto aiuti provinciali a fondo perduto”. Non servono, quindi, secondo Pedron, i 50 milioni di euro che la Provincia di Trento sarebbe pronta a sborsare alle cantine per risanare i deficit: basterebbe che le realtà socie di Cavit Spa cedessero le loro azioni, con diritto di prelazione agli altri azionisti. Ma se nessuno fosse disposto a comprare, gli investitori da fuori regione avrebbero carta bianca. Cosa ne pensa Cavit dell’evoluzione in Spa? “Siamo aperti a tutte le forme societarie – commenta il presidente Adriano Orsi – pensando all’interesse del consorzio e del sistema. Con la nuova direzione generale stavamo già facendo ipotesi di questo tipo”.

Adriano Orsi

DA GIGANTI A NANI

“Voler diventare il terzo polo per Lavis è stato fatale – spiega Pedron -. Ha fatto investimenti ed acquisizioni a debito, non con patrimonio proprio, e non corretti, sia per il momento in cui sono state fatte, sia per la tipologia di acquisizioni (su tutti la Toscana)”. Il futuro del closso lavisiano? “Tornare ad essere la virtuosa cantina sociale che io ho stimato moltissimo (la loro crescita è stata una perdita per il Trentino, perché facevano un vino di alta qualità) e, quindi, per sanare i suoi debiti, liberarsi di Casa Girelli e Cesarini Sforza, che potrebbero essere acquistate da Cavit, delle tenute toscane di Poggio Morino e Villa Cafaggio. Altri possono avere interesse ad acquisire gli immobili che si libereranno (Casa Girelli, ndr). Lavis non puo essere lasciata sola in questo passaggio, deve essere aiutata dal sistema trentino”. Con una Toscana vinicola in crisi profonda, vendere le aziende nel Chianti e in Maremma sarà difficile, commenta Pedron: ma i bene informati parlano già del Gruppo italiano vini (di cui Pedron era presidente fino a febbraio), che nei prossimi mesi con ogni probabilità metterà sul piatto la sua offerta. Quanto alle etichette di pregio di Cesarini Sforza cedute a Cavit, Pedron ipotizza: “Se venisse acquisita da Cavit si dovrebbero moltiplicare le quantità, magari facendo scendere la qualità, mentre tutto lo chardonnay necessario ci si rivolgerebbe a La Vis”. Orsi commenta: “Se il Piano Pedron prevede che Cavit acquisti Casa Girelli e Cesarini Sforza, lo faremo, visto che rientra negli obiettivi generale del mondo del vino. Una scelta importante che, comunque, va discussa in cda”.

MEZZACORONA MONOLITICA E GLI ALTRI

“Mezzarcorona con Nosio è sistema ormai monolitico, esploso nella sua statura. Non si capisce come possa in qualche maniera entrare nel riassetto – osserva il consulente – se non partecipando attivamente alla valorizzazione del sistema vinicolo trentino”. In altre parole, Rizzoli e i suoi devono dialogare con le altre aziende ma rimane sulla loro strada. Evidentemente vincente. Le altre cantine sociali dovranno “cercare un percorso virtuoso per ridurre costi, condividendo risorse umane e strutture produttive (non servono 14 cantine, non servono 14 direttori); avviare progetti di valorizzazione dei loro vini, a loro marchio”. Perché il grosso errore del Trentino del vino negli ultimi anni è stato trascurare i vitigni autoctoni e livellare (verso il basso) la qualità. Niente di nuovo sotto il cielo del Trentino, perché tutti i punti della strategia Pedron erano già stati detti e scritti (anche dall’Udias la scorsa estate): ci voleva però una figura super partes che ribadisse il già noto. Che poi sono solo proposte, si affretta a ribadire il numero uno di Federcoop, Diego Schelfi, “non è detto che le cantine trentine le recepiscano”. Ma il presidente della Cooperazione trentina, in tutto questo, non poteva indirizzare i cattivi investimenti delle cantine sociali? “Domanda difficile e complessa – risponde diplomatico Pedron -. Sicuramente all interno di ogni coop nasce l’orgoglio di diventare più belli e più grandi. Sono stati fatti degli errori, ma ogni azienda ha il suo cda e decide. Sono cose che succedono in tutta Italia. Dovrebbero essere controllate di più. Gli anni forti del vino sono stati spesi male, comprando cose che non rendono, non si è pensato di investire nella qualità vera e sui clienti”. E Schelfi, che dice? “Se queste domande avessero una risposta sarebbe tutto più semplice. Non so se potevamo essere più bravi. Questo tipo di investimenti hanno una storia di decenni e se il risultato è buono si vede nel lungo periodo. Il ruolo della Cooperazione è mettere al centro la riflessione ed il confronto”. Ma il suo ruolo non dovrebbe essere anche richiamare all’ordine? “Sì, sicuramente, ma se mi si fa una domanda sul vino, io non ne so nulla. E noi non abbiamo il potere di dire a qualcuno di rinunciare a un investimento”.  Ma il potere di non elargire soldi a fondo perduto, soldi pubblici dei cittadini, per costruire o comperare cose inutili, quello sì che la Cooperazione e la Provincia ce l’hanno. Ma poi c’è il rischio di perdere i consensi…

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