I pochi che in Italia hanno sentito parlare – e sottolineo, solo parlare – di Garbole, ne parlano come un puro e semplice progetto di marketing, per lo più dovuto al fatto che i loro vini costano al pubblico tanto quanto quelli di due mostri sacri della Valpoicella, Quintarelli e Dal Forno.
Certo, il marketing non manca nel restyling delle etichette dei fratelli Ettore e Filippo Finetto: nere come la notte, con quella G stilizzata in rosso laccato (a richiamare i brand d’alta moda) e i nomi dei vini che, per scelta, iniziano tutti con la H: Hatteso, Heletto, Hurlo, Hestremo. Ma oltre al marketing c’è di più: coraggio, testardaggine, ovviamente passione, certamente visione e un po’ di cazzimma, di quella sana consapevolezza che ti fa prendere anche scelte apparentemente impopolari. Come quella di togliere la Valpolicella in etichetta.
Ma andiamo per gradi. Siamo in Valpolicella, nel 1994. Ettore Finetto ha 17 anni e inizia a fare i suoi primi esperimenti vinicoli da autodidatta. Lui è uno a cui piace vivere fuori dalla comfort zone, uno che ama rischiare e che dio lo salvi dalla routine. «Siamo partiti da zero in tempi non sospetti, i nostri attuali 12 ettari sono tutti appezzamenti messi insieme nel corso degli anni – racconta Ettore -. Agli inizi degli anni Novanta il mondo del vino non era quello di adesso. Oggi questa è la valle d’Illasi è forse tra le più belle dal punto di vista viticolo, allora era tutto abbandonato, la gente ancora stava lasciando la campagna e l’argricoltura. Era una zona considerata peggio che serie B. Tutti ci scoraggiavano, ma noi siamo testardi. Per 5-6 anni abbiamo fatto vino in damigiana o per le osterie. Poi abbiamo iniziato a vendere vino sfuso alle altre cantine della zona». Garbole per i fratelli Finetto era un secondo lavoro, il primo, per Ettore ad esempio, era quello di operaio in un’azienda metalmeccanica: «Quella del vino era diventata col tempo un’attività ancora troppo poco remunerativa per essere un lavoro ma troppo impegnativa per essere un hobby, così a partire dal 2000, sempre mantenendo due lavori, mio fratello Filippo ed io abbiamo deciso di investire in un progetto di alto livello, Garbole appunto».
Un progetto, quindi, che ha più di 20 anni ma che in Italia conoscono ancora in pochi. Come mai? «Fino al 2012 vendevamo solo all’estero – spiega Ettore -, poi ci siamo fatti delle domande e abbiamo deciso di cambiare tutto, in concomitanza con il lancio dei nuovi vini. Commercialmente siamo ripartiti da zero. Abbiamo tolto il nome Valpolicella dall’etichetta, e siamo stati subito molto criticati… Dal prossimo imbottigliamento toglieremo anche il nome Amarone: non ci interessa più far parte di consorzi, federazioni ecc. Sono molto individualista, non frequento il mondo del vino, non faccio degustazioni. Abbiamo deciso di puntare tutto sul nostro brand, non sulla denominazione. Mi piace pensare che il vino sia dentro la bottiglia e non fuori: per tanti anni abbiamo guardato tanto al marketing, ma è una parola che non si può tradurre in dialetto veronese e per questo non mi piace. Rispettiamo quello che fanno gli altri, ma siamo veneti, anzi veronesi, e contadini, quindi non possiamo fare qualcosa in gruppo…».
La produzione di Garbole in media è di circa 25mila bottiglia, ma le variazioni possono essere sensibili in base all’annata: «Potremmo produrre di più ma non vogliamo, semmai facciamo meno bottiglie a un euro in più. Oggi lavoriamo quasi su assegnazione, sappiamo in modo preciso chi sono dove sono e quanto consumano i nostri clienti. Il Covid è stato un test molto bello perché nel 2020 siamo riusciti ad aumentare le vendite rispetto al 2019, che rea stata già un’annata da record. Oggi il nostro vino va per il 60% all’estero, con un exploit del mercato del Sud Est Asiatico, dove abbiamo quadruplicato le vendite. Il cliente ideale di Garbole è il ristorante di un certo livello, non necessariamente stellato ma sicuramente con una cantina di un certo tipo, dove l’appassionato ristoratore ha la volontà di diventare nostro ambasciatore».
I vini che compongono oggi la linea di Garbole sono stati rilasciati tra il 2012 e il 2014, un semplice cambio di vestito perché «l’immagine è importante anche se il mondo del vino è ancora molto statico, sia a livello di immagine sia di comunicazione. Non abbiamo mai seguito l’andamento di mercato: usciamo a 9-10 anni dalla vendemmia, non potrei mai rincorrere le mode».
Ettore è l’enologo, segue la parte di produzione e anche la comunicazione e il commerciale: «Da quando sono io l’enologo di Garbole abbiamo potuto osare un po’ di più. Ho provato nuove strade e nuovi metodi. Anche dal punto di vista agricolo, prima avevamo agronomo, oggi ha in mano tutto mio fratello, sovvertendo molte regole e credenze. Ad esempio, in campagna oggi si sente dire che per fare buon vino serve produrre 500 grammi, massimo 1 kg per pianta per fare vino buono. Ma se una pianta è vigorosa non serve ridurne la resa. Credo che abbiamo perso un po’ la cognizione che la natura è già brava da sola, non ha bisogno più di tanto del nostro intervento. Con questo voglio dire che una pianta che vive in salute e ha un equilibrio suo, se gestita bene ti da 1 kg di uva in più e più buono. Un altro esempio è il sistema di allevamento: vent’anni i primi vigneti li abbiamo impiantati a guyot e con migliaia di ceppi per ettaro per seguire dettami francesi, oggi non lo rifarei. Le nostre uve, soprattutto Corvina e Corvinone non sono adatte al guyot, non a caso esiste la pergola veronese da millenni: la pergola gestita bene dà un’uva che a mio avviso non ha niente da invidiare a quella prodotta con guyot o altre forme di allevamento. Anzi, lavori con meno manodopera, che oggi è il problema numero uno delle aziende. Inoltre l’uva è sempre in penombra, non si scotta. Per questo siamo usciti dagli stereotipi, abbiamo rivisto molte cose».
Ad esempio, Garbole non è biologica, «perché il biologico per noi non è un escamotage commerciale. Siamo molto attenti a come produciamo, ma non possiamo montare uno scandalo contro l’aspirina se uno muore di aspirina. Mi spiego. La chiave di tutto per noi è una gestione delle cose con una parola oggi fuorimoda che è il buonsenso. Usiamo i trattamenti con parsimonia, ma se servono li facciamo. La nostra gestione è molto attenta. Potremmo essere certificati ma non lo voglio fare per un motivo di orgoglio personale, non mi voglio etichettare come un produttore bio. Non credo negli assoluti. Un vino con pochi solfiti, fatto bene, è meno dannoso di un vino senza solfiti».
Le idee, i fratelli Finetto, le hanno chiare, non c’è dubbio. «Non ho mai avuto un mito da inseguire, un vino che mi ha ispirato – afferma Ettore -. Preferisco essere originale, in tutto, piuttosto che copiare. Fin dall’inizio sapevamo molto bene che vino volevamo fare. Non avevamo grandi mezzi, ma le idee chiare sì, e questa è sicuramente una cosa importantissima in questo mondo che gira così veloce».
Oggi Garbole è in una fase di grandi cambiamenti e di progetti importanti. A Ettore brillano gli occhi: «All’Hurlo, il nostro vino di punta, verrà dedicata una sede diversa, per lui e per la sua “compagna”, l’Hurlo bianco, stesse uve dell’Hurlo ma vinificato con il salasso, filtrato con il carbone e vinificato in bianco. Un vino pazzesco, difficile da trovare: sarò pronto a fine 2022, uscirà senza annata». Ma non solo, «abbiamo rilevato una villa veneta con parco e castello, diventerà Villa Hurlo e sarà accessibile solo ai nostri clienti. Nel giro di 3-4 anni Garbole produrrà solo Hurlo. Vogliamo tirare su l’asticella di un bel po’ per arrivare a venderlo a 1000 euro a bottiglia».
Heletto, Hatteso ed Hestremo resteranno firmate Garbole. L’uva che non è idonea per il top di gamma viene imbottigliata da un’altra azienda dei fratelli Finetto, Villa Mata, che produce una linea di vini per un mercato più ampio.
«Ho un problema, si chiama noia. I primi 20 anni di Garbole non mi sono stufato perché avevo tante cose da fare senza avere molte disponibilità economiche, quindi mi sono dovuto ingegnare, ho dovuto costruire, non mi sono annoiato. Ora che le cose vanno discretamente bene, abbiamo acquistato la nuova tenuta, per dare una ventata di entusiasmo e avere qualche problema in più da risolvere. Altrimenti è routine e rischio di voler cambiare lavoro…».
La bellezza dei sogni, la contadinanza come status symbol e come altissimo livello di cultura, l’ambizione, la passione. Ecco quello che di metafisico si sente nel calice e che rende così speciali i vini di Garbole, che ora provo a raccontarvi, ma che non sarà mai come quando li avrete nel bicchiere e li potrete assaggiare.
HELETTO 2013
Prima vendemmia 2008, prima uscita a fine 2014. Apparterrebbe alla categoria del Valpolicella Superiore.
Uve Corvina, Corvinone, Condinella più una percentuale di Teroldego, uva veronese al 100% e poi migrata in Trentino, e Croatina.
Questo blend è lo stesso anche per l’Amarone e il Recioto, con le stesse percentuali, ma cambia il processo di produzione.
Heletto viene vinificato, fermentato in acciaio inox a temperature basse, con macerazioni lunghe, poi viene travasato un paio di volte, quindi passa in barrique nuove di legno americano per 7-8 anni. Dalle barrique non viene mai travasato, viene tolto 10 giorni prima dell’imbottigliamento. «Usando legni nuovi americani abbiamo apporto di ossigeno importante, il vino non va in riduzione». Fa un anno in bottiglia prima di essere rilasciato.
Note di degustazione: al naso profuma di ciliegia, spezie, tabacco, con un leggerissimo sentore di cuoio, in bocca è un tripudio di cioccolato, marasca, pepe, erbe aromatiche, risulta morbido, con un tannino non aggressivo. Stupendo.
HATTESO Amarone Riserva 2011
Prima vendemmia 2008, prima uscita a fine 2014.
«La differenza la fa il tempo di appassimento, pigiamo a fine novembre, massimo primi di dicembre, quindi dopo due mesi di appassimento delle uve. La vinificazione è la stessa di Heletto. Tutto legno nuovo americano, ma fa un anno in più di invecchiamento rispetto all’Heletto, quindi 9 anni di legno e un anno in bottiglia prima del rilascio».
Note di degustazione: al naso profuma di vaniglia, amaretto, frutta nera matura, mora. In bocca colpisce soprattutto per la marasca matura, la sua morbidezza e un’acidità moderata ma ben presente.
HURLO 2012
Prima vendemmia 2008, 4mila bottiglie
«Qui dentro c’è tutta la nostra storia. All’inizio di questa avventura, non avendo vigne mie, andavamo a comperare l’uva nei vecchi vigneti, dove mi imbattevo in tipologie di uva che non conoscevo. Al che mi è venuta l’idea – intuizione e fortuna – di prendere queste uve “strane” e recuperarle. Hurlo è questo: un blend dove l’uva più rappresentativa è la Saccola, poi c’è Pontedarola, Spigamonti, Segreta, vitigni autoctoni che erano andati persi quasi del tutto probabilmente per un motivo legato alle rese».
Nel 2008 viene fatta la prima vinificazione di queste uve (stesso procedimento di Hatteso) e fin da subito, prima di mettere il vino nel legno, Ettore capisce che era nato qualcosa di nuovo. «Arriva il 2013 e imbottigliamo la prima annata di questo vino che ancora non aveva un nome. Avevamo fatto 1500 bottiglie. Durante un blind tasting qualcuno ha esclamato: questo vino è da urlo! E così lo abbiamo battezzato…»
Note di degustazione: al naso profuma di liquirizia, liquore, marasca sotto spirito, in bocca è un tripudio di frutta nera sotto spirito e mandorla, un vino diverso, un’esperienza unica.
HESTREMO Recioto 2007
Prima annata il 2006, prodotto fino al 2011, poi sospeso. Produzione ricominciata dal 2016. Da
«Nasce da un’idea di Romano Dal Forno, uno dei pochi produttori con cui parlo e mi confronto – racconta Ettore – di imbottigliare tutto in formato magnum, cosa che abbiamo fatto con l’annata 2008. Il Recioto a me mi piace farlo e piace berlo. Col Recioto è bello giocare, soprattutto con il salato. Puoi fare degli abbinamenti fuori di testa, come con il foie gras, le sarde in saor, gli scampi alla griglia, le alici con il burro e il pane. Anche se la cosa migliore con cui abbinarlo è una bella donna…».
Note di degustazione: al naso profuma di miele, in bocca è cremoso, ha una sapidità incredibile, è freschissimo, gli aromi di ciliegia matura e di uva passita, solo accennata, continuano a chiamare il sorso. Un vino da sotto le lenzuola.