MILANO, 12 febbraio – La nona edizione del più importante congresso di gastronomia in Italia si è chiusa da poche ore e tutti coloro che desiderano sapere chi c’era, chi non c’era e che cosa è successo sono già stati accontentati. Mai come quest’anno, infatti, è stata capillare la copertura online – e in tempo pressoché reale – della manifestazione, a partire dal sito ufficiale. Se da un lato ciò dà conto della popolarità dell’evento, dall’altro rende inutile scriverne l’ennesimo resoconto tanto per dire c’ero anch’io, magari corredandolo con decine di immagini a comprova della presenza.
Che cosa resta, allora, a chi – come me – si ostina ad ascoltare gli interventi, prima di incidere appunti disperatamente offline con una penna nera, su un nero taccuino, anziché dattilografarli su un qualunque dispositivo per pubblicarli in acritica diretta? Poco forse, ma ho voglia di raccontarvelo: in pochi paragrafi.
La vera stella è stata Enrico Crippa (Piazza Duomo, Alba), che lunedì 11 in tre quarti d’ora ha preparato e descritto un magistrale menu di sei portate, in perfetto equilibrio fra il rispetto della tradizione nazionale e la padronanza delle tecniche culinarie più evolute. Relegato lo scorso anno in una delle due sale minori, il neo-tristellato Enrico ha entusiasmato il pubblico del riguadagnato Auditorium: concretezza, precisione e capacità di “fare squadra” i punti di forza di questo brianzolo poco più che quarantenne, che non dimentica di ringraziare i Ceretto per avergli dato la possibilità di lavorare in Langa: «Un luogo magico, per un cuoco».
L’intervento da ricordare è stato quello odierno dello chef pasticciere Gianluca Fusto, che non si è limitato a presentare il suo libro Percorsi, appena pubblicato da Reed Gourmet (qui il raffinato booktrailer), ma per finire in bellezza ha offerto un clamoroso dessert-benessere: cioccolato bianco, centrifugato e crema di sedano, placca di cioccolato, mousse di limoni al basilico, accompagnato da un’insalatina di sedano-rapa, finocchio e mela verde, olio e sale, “acqua ghiacciata”. Dal pubblico espressioni fra il miracolato e l’orgasmico, lunga standing ovation, in lacrime (vere) l’autore. Un plauso a Paolo Marchi e alla sua redazione, per aver creato la nuova sezione Identità Libri.
Non è invece colpa di Marchi, ma va pure detto che, quando Identità era meno frequentata, si assaggiavano molti più piatti. Poiché ho ancora il vizio di usare le posate – oltre alla penna, come detto – assegno il riconoscimento Date da mangiare (bene) agli affamati al poliglotta Eugenio Boer, chef di Enocratia, per due preparazioni davvero degne di nota: “Topinambur, cioccolato bianco, arancia, marroni, birra” e “Spaghetti al tè nero Lapsang Souchong, patate allo zafferano e ricci di mare”.
Tutto bene dunque? No: c’è anche qualcosa che non ho proprio sopportato. Devo pur giustificare il mio soprannome, no?
Da un cuoco pretendo che sappia cucinare: poco m’interessa la sua padronanza del congiuntivo e, più in generale, della consecutio temporum. Ma se quel cuoco è tra i primi al mondo, mi chiedo: non ha un amico cui far rileggere le proprie presentazioni, prima di proiettarle sul megaschermo su cui mi è toccato leggere, ben evidente, la parola “teritorio”?
Da una giornalista non pretendo l’onniscienza, ma se alla domanda di aiuto (sincera, non ironica) posta da un cuoco: «Un gregge, ma di pesci… come si dice? Non mi viene la parola», questa risponde: «Un branco… sì, un branco di pesci», mi domando: su quel palco non poteva salire un’altra persona?
Alla scrittrice che, per darsi un tono di sensuale modernità, si definisce «Un po’ voyeurista», chi spiegherà che in francese una guardona – al femminile – si direbbe voyeuse? E che forse una (vera) Signora, di sé e in pubblico, non lo direbbe mai?