Nelle loro bottiglie di Brunello di Montalcino c’è davvero tutta la storia di questo vino. Loro sono i Biondi Santi, che il Brunello lo hanno letteralmente inventato, poco dopo la seconda metà dell’Ottocento. Da lì è stato un continuo lavoro in campagna ma anche “per strada”, per far conoscere questo straordinario prodotto in tutto il mondo, rispettandone sempre la tradizione e l’immagine. Fama e blasone di questo vino, simbolo non solo di chi se lo può permettere ma anche dell’eccellenza enologica italiana, non sono solo opera di una sapiente attività di marketing, tutt’altro. È il bouquet di emozioni racchiuse in un sorso, il suo segreto. L’effetto che fa, lo riassume bene Alberico Boncompagni Ludovisi, Principe di Venosa, che nel 1966, dopo aver stappato una bottiglia di Brunello Biondi Santi, non potè non prendere carta e penna e descriverlo come «vino di una qualità superiore e tale da farlo considerare uno dei grandi vini italiani – quasi l’unico?! – che vorrei definire, a modo mio, un rosso maestoso, severo, maschio, medioevale, un “primitivo senese” per farne paragone con l’arte di quella fatta e della stessa nativa parte d’Italia».
Ma facciamo un salto indietro nella storia. L’attività vinicola dei Biondi Santi inizia nella prima metà dell’Ottocento nella tenuta del Greppo con il capostipite di questa illustre famiglia, Clemente Santi, trisavolo dell’attuale proprietario Franco Biondi Santi. A raccoglierne il testimone fu la figlia Caterina, sposata a Jacopo Biondi, e poi con il loro figlio Ferruccio, pittore, garibaldino, valente viticultore ed enologo. Fu lui ad individuare e selezionare un clone di Sangiovese grosso, mutazione locale del Sangiovese di particolare pregio, dalle bacche molto ricche di colore, di estratti e di acidità totale. Così, sul finire dell’Ottocento, all’ombra dei suoi vigneti del Greppo, ne vinificò in purezza le uve, ottenendo un vino di grande struttura ed eleganza: il Brunello di Montalcino. Ma Ferruccio non si ferò qui: sistemizzò il protocollo di produzione, tanto che fu uno degli ispiratori e promotori del disciplinare. Un’eredità preziosa che è poi passata nelle mani di Tancredi Biondi Santi e, oggi, di Franco Biondi Santi, il “Grande Vecchio del Brunello”, e di suo figlio Jacopo, a cui si deve la creazione del famoso Sassalloro, nuova interpretazione del Sangiovese, ormai entrato nell’empireo delle etichette più prestigiose.
Per questo se a parlare è uno come Jacopo Biondi Santi non ci si può che fermare ad ascoltarlo ed a riflettere. «Oggi nel mondo dl vino mancano i punti di riferimento. La crisi è evidente ed è dovuta alla saturazione del mercato, ma non solo. I prodotti attualmente in commercio sono fatti bene, ma non hanno né carattere né zonazione». Lo sa bene lui che invece ha condotto uno studio proprio per mappare i rapporti che si instaurano tra i vitigni coltivati, le caratteristiche ambientali, e l’azione dell’uomo, in modo da valutare le potenzialità produttive e qualitative dei diversi ecosistemi viticoli. «Bisogna tornare a dare personalità ai propri vini: tutti sono andati dietro alle guide, senza pensare al territorio e quindi facendo prodotti che sono clonabili in tutto il mondo. Un vino zonato sul territorio, invece, non è riproducibile in nessun’altra parte. Ripeto, i produttori dovrebbero tornare a fare il vino delle loro zone, vini in cui si beva il territorio ed in cui la gente riesca così a giustificare anche un prezzo più alto delle bottiglie».
Per il suo Brunello di Montalcino, a dire il vero, non si è mai discusso sul prezzo, almeno non dopo averlo bevuto. Lo stile di vinificazione è unico, e lo stesso da decenni. Tutti i vini de Il Greppo provengono da uve coltivate nei venti ettari di vigneto di proprietà, e il Brunello Riserva esclusivamente da vigneti di oltre 25 anni di età. E per preservare le caratteristiche del clone di Sangiovese grosso selezionato da Ferruccio Biondi Santi nel 1870, i nuovi vigneti vengono da sempre innestati con gemme prese dalle vecchie piante.
«Il mio studio microzonale mi ha portato ad un clone di Merlot francese e di Cabernet Sauvignon che ha dato risultati eccezionali. Con questi, abbiamo creato il Montepaone, 100% Cabernet Sauvignon, ed il Morione, 100% Merlot». Il primo, prodotto in 25mila bottiglie, il secondo in 7mila. Due nuovi vini che vengono da un’altra tenuta di famiglia, il Castello di Montepò a Scansano, in Maremma, 52 ettari di vigneto sovrastati dall’imponente struttura del maniero, raro esempio di villa fortificata senese del periodo rinascimentale. Il totale della produzione Biondi Santi è di quasi 600mila bottiglie all’anno, di cui 500mila prodotte in Maremma ed 85mila a Montalcino.
Per l’unica famiglia al mondo ad aver dato il proprio cognome ad un vino, l’eccellenza ed il made in Italy sono le parole d’ordine (anche se prima di tutto viene l’attaccamento per la propria terra), tanto da essere tra i protagonisti di Altagamma, la Fondazione presieduta da Santo Versace e tutta dedicata alla promozione delle eccellenze italiane. «Far parte di Altagamma – spiega Biondi Santi – è una cosa molto importante per la nostra immagine e per poter fare rete con gli altri grandi marchi italiani in modo da presentare insieme il life style italiano, che è il modo di vivere più “invidiato” nel mondo. L’Italia, del resto, è sinonimo di classe e stile per tutti, ovunque». Ma il vino, in generale, richiede più impegno nella comunicazione, perché è un prodotto meno immediato di un vestito: «Il vino italiano è un gioiello che bisogna saper portare». Ipse dixit.
(mio articolo su Vie del Gusto agosto 2010)