Italia–Francia è una finale mondiale di calcio già vista (quella della testata di Zidane a Materazzi) ed è un bel ricordo datato 2006 (meglio pensare a quello e dimenticare il Sudafrica 2010). Guarda caso, Francia–Brasile in quell’anno finì tre a zero per i galletti d’Oltralpe ai quarti di finale. L’ultima partita Italia–Brasile fu l’amichevole giocata a Londra, il 10 febbraio 2009 (vinsero i brasiliani per due a zero). Ora i tifosi azzurri possono sperare (forse sognare…) una finalissima Brasile–Italia per i mondiali del 2014, che si svolgeranno proprio nel paese sudamericano. Sarebbe un incontro da sballo, perché nell’albo d’oro della Coppa del Mondo il Brasile vanta cinque titoli, l’Italia insegue a quota quattro (la Francia, per dovere di cronaca, ha sollevato la Coppa del Mondo una sola volta, nel 1998).
Se dal campo di calcio si passa al mondo del vino, le cose stanno diversamente. Italia e Francia, con circa 45 milioni di ettolitri annui ciascuno, si contendono il ruolo di primo produttore (nel 2009 il primato è stato italiano, ma il dato cambia da vendemmia a vendemmia). E si contendono anche le posizioni sul mercato mondiale, dove ormai da qualche decennio i tre grandi produttori europei (c’è anche la Spagna: sommando a Italia e Francia i suoi rispettabili 40 milioni di ettolitri il totale fa 130 milioni, ovvero quasi la metà di tutto il vino prodotto nel mondo) devono fare i conti con quei paesi che fino a pochi anni si potevano definire emergenti: Sudafrica, Cile, Argentina, Nuova Zelanda sono ormai solidi “competitors”. Oggi gli emergenti sono altri, come appunto il Brasile, orgoglioso di essere il quinto produttore dell’emisfero australe (alle spalle di Argentina, Australia, Sudafrica, Cile). La produzione “carioca” è di soli 3,2 milioni di ettolitri, ma secondo i dati dell’OIV nei prossimi anni è destinata a crescere in maniera consistente.
In questo mondo del vino veramente globale, un imprenditore, enologo e produttore veneto, Orfeo Varaschin, ha deciso di “giocare” (per restare nella metafora calcistica) a… tutto campo.
Orfeo è la terza generazione di una dinastia di vignaioli, una storia avviata nel 1930 a San Pietro di Barbozza da Matteo Varaschin, uno dei “patriarchi” della zona di Valdobbiadene. Dopo Matteo, il testimone è passato ai figli Renzo e Luigi; oggi è Orfeo ad avere le redini di un’azienda moderna, proiettata nel futuro. In questo progetto di crescita si colloca la distribuzione, che prende il via proprio in queste settimane, in esclusiva per il mercato italiano, di due marchi prestigiosi: quelli della Maison Volleraux (Champagne) e della brasiliana Vinicola Miolo.
La storia della Volleraux è, dall’altra parte delle Alpi, tra le colline dello Champagne (la grandeur francese preferisce parlare di “montagna di Reims”, anche se il punto più alto arriva a 288 metri slm) simile a quella dei Varaschin: una famiglia – la famiglia dei Volleraux appunto – che nel 1923 inizia a produrre Champagne in proprio e che oggi continua la tradizione, con quaranta ettari di vigneti distribuiti nei migliori “cru” del territorio.
Ed è una storia di famiglia pure quella della Miolo, anche se va detto subito che oggi il Miolo Wine Group è il più importante produttore del Brasile. Una storia che inizia in Veneto, a Piombino Dese, paese di origine di Giuseppe Miolo, che nel 1897 sbarcò in Brasile come tanti altri veneti ed italiani. Con i primi risparmi, “Bepi Miolo” acquistò, nella “Vale dos Vinhedos” (una regione che occupa un’area di 82 chilometri quadrati nello stato di Rio Grande do Sul) il suo primo lotto di terreno, denominato “lote 43”. Iniziò con lui la tradizione di famiglia: produttori di uve da vino.
Negli anni ’70, i nipoti del fondatore furono pionieri nell’impianto di viti di grande qualità, e divennero in breve famosi per la produzione di uve eccellenti. Uve che vendevano ad altre aziende, finché, alla fine degli anni ’80, una caduta del mercato li indusse a prendere una decisione storica: produrre vino in proprio, da vendere all’ingrosso ad altre cantine. Un altro momento importante arriva nel 1992: escono le prime bottiglie con l’etichetta “Riserva Miolo”. Parte un periodo di crescita rapidissima, che anche attraverso una politica di acquisizione di altre aziende (oggi le unità operative del gruppo sono otto, cinque delle quali in Brasile, una in Cile, una in Argentina, una in Europa – Spagna e Portogallo), ha portato la Miolo a superare nel 2008 i 12 milioni di litri di vino prodotti, suddivisi nei vari segmenti di mercato.
Il mitico “Lote 43”, il primo terreno acquisito da Bepi Miolo, con un valore affettivo simile a quello di Paperon de Paperoni per la sua “numero uno”, ha dato il nome ad uno dei rossi più prestigiosi del gruppo Miolo. Un vino che grazie all’iniziativa di Orfeo Varaschin, sarà ora possibile degustare anche in Italia. Per ricordare che emigrazione, immigrazione e globalizzazione fanno parte di un unico, complesso mosaico.
W i Vini Italiani!!!
W l’Amarone!!!