L’Oltrepò Pavese, culla del Pinot Noir italico, non a caso stabile sul terzo gradino del podio dopo Borgogna e Champagne, soprattutto declinato nelle sue silhouette effervescenti, torna al centro dello scacchiere vitivinicolo nazionale. Almeno così sembra dai movimenti di acquisizione di cantine e vigneti da parte di grandi gruppi e aziende del vino che si sono realizzati e si stanno concretizzando negli ultimi tempi. Dopo esserne stato il re indiscusso per anni, l’intuizione di Gancia risale infatti al 1865, le mosse delle altre pedine territorial-nazionali delle bollicine, lo hanno progressivamente messo sempre più in scacco. L’arrivo del tagliente Trentodoc (inizio del ‘900), del più gentile Franciacorta (1961) e del contemporaneo Alta Langa (1996) per i metodo classico e Prosecco-Valdobbiadene, Lambrusco per il Martinotti o Charmat che dir si voglia, di fatto hanno irrorato di croccantezza, cremosità, freschezza ed eleganza il mercato. Un variegato scacchiere vitivinicolo che al di là delle basi internazionali (Pinot Noir e Chardonnay) ha sempre di più iniziato a guardare anche al concetto di territorio, con l’utilizzo di vitigni locali, per vestire il sorso italico. Ma in Oltrepò il Pinot Noir lo si può tranquillamente definire vitigno autoctono.
Pur avendo perso la corona in questi ultimi decenni, e relegatosi a ruolo di alfiere dell’effervescenza, l’Oltrepò Pavese non ha mai smesso di giocare, comunque, un ruolo fondamentale nella strategia d’attacco dell’offerta briosa e complessa della spumantistica nazionale. Un gioco che non ha di certo guardato all’arrocco ma che dalla seconda linea, con movimenti e incursioni in diagonale, ha saputo e sta mangiando i margini di distacco dai suoi “avversari”.
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