Avevo trascorso gli ultimi tre giorni in un latente stato di agitazione, ma fortunatamente nessuno se ne era accorto.
Del mio articolo su Octopus, del resto, non ne avevo fatto parola né con Roberto né con i miei genitori, mentre alle ragazze del club avevo chiesto di radunarci al Black Lounge per un aperitivo la sera del giorno in cui sarebbe uscita la rivista.
«Come mai?», mi aveva chiesto Alessandra. Il Black Lounge non era uno dei locali che frequentavamo usualmente e proprio per questo lo avevo scelto: se le cose fossero andate male non avrei avuto in giro troppa gente che conoscevo. Al contrario, se l’articolo avesse colpito nel segno, avremmo proseguito la serata al Church.
«Ti posso solo dire che ci saranno da stappare molte bollicine, per festeggiare o per dimenticare».
«In pentola deve bollire qualcosa di grosso, allora. Nemmeno quando è uscito il tuo libro avevi organizzato una serata con questi presupposti».
«Hai ragione, lunedì sarà un giorno importante. Ci vediamo lì alle 18?»
«Non è troppo presto per te?»
«No, lunedì ho deciso di non lavorare».
«Va bene, ci vediamo lì». Alessandra aveva capito dal mio tono di voce che non sarei scesa in maggiori dettagli e che avreb- be dovuto aspettare un paio di giorni per trovare le risposte alla sua curiosità.
Telefonai alle altre ragazze replicando più o meno con tutte e tre la conversazione avuta con Alessandra. Il fine settimana era passato veloce: sabato sera ero stata impegnata nel party che la cantina trentina La Vis aveva organizzato al Guggenheim di Ve- nezia per festeggiare i vent’anni della sua linea di vini Ritratti, mentre domenica con Roberto avevamo deciso di fare una sorpresa a suo figlio, Alessandro, e così eravamo andati a Gardaland, il famoso parco giochi del Garda, per poi cenare a suon di tortelli di zucca a Valeggio sul Mincio. A forza di venire per ristoranti con noi e di sentire parlare di cucina, Alessandro aveva iniziato ad appassionarsi: preferiva il culatello al prosciutto crudo, lo Strolghino di Langhirano al comune salame, la pasta fatta in casa ai tortellini confezionati del supermercato. C’era voluto qualche anno, ma alla fine ero riuscita in tre piccole “imprese”, se si considerano i gusti alimentari di un bambino: fargli preferire la carne al sangue invece che ben cotta (a differenza di suo padre che ancora la mangiava stile “suola da scarpe”), le patatine fritte fatte con le patate fresche rispetto a quelle surgelate, la torta fatta in casa invece che le merendine confezionate. Recentemente ero riuscita a convincerlo anche a mangiare il pesce. In quest’ultimo caso, però, la situazione mi era sfuggita di mano: Alessandro mangiava solo il pesce freschissimo, di mare e possibilmente cucinato alla brace, meglio ancora se in qualcuno dei suoi due o tre ristoranti di pesce preferiti. Il Mc Donald’s restava sempre nella top ten dei suoi locali del cuore, ma non era più la tappa obbligata di ogni sabato sera. Miracolo. Il mio palato era salvo, e anche il suo. Con il vino, invece, ancora non c’era stato verso.
«Ti metto nell’acqua un po’ di questo Valpolicella?», gli chiesi mentre stavamo aspettando i nostri tortelli di zucca.
«No, lo sai che non mi piace», mi rispose Alessandro, poi pre- se la Coca Cola e ne fece un bel sorso.
«È più buona quella, vero? Soprattutto più sana…».
«No, ma io acqua e vino non la bevo. E non attaccare con la solita storia che tu hai iniziato a berla quando avevi quattro anni. Io il vino non lo berrò mai».
«Non dirlo neanche per scherzo, lo sai che gli astemi mi fanno paura, non c’è da fidarsi. Una delle mie regole è: mai fidanzarsi con un ragazzo (o una ragazza nel tuo caso) che non beve vino. Ricordatelo per quando sarai più grande».
«Ah sì, e quali altre regole hai sui fidanzati?», ci interruppe divertito Roberto.
«Beh, il banco di prova per me è sempre passato attraverso la tavola. Continuo a ripeterlo anche alle ragazze, ma spesso se lo dimenticano…».
«E sentiamo un po’, quale sarebbe il tuo decalogo?»
«Anzitutto, partiamo dall’invito. Se uno al primo appunta- mento ti porta in pizzeria le cose da fare sono due: se sei in tempo per fingere un mal di testa per dare forfait, fallo, se invece la location era una sorpresa, finisci la pizza, fatti portare a casa e non rispondergli più al telefono. Non c’entrano i soldi, ma credo che uno che sia davvero interessato a te, la prima cena insieme ci tenga a fare in modo che sia speciale, come ambiente, atmosfera e menu, non trovi?»
«Giusto», confermò.
«Secondo: l’aspirante fidanzato deve dare per scontato che verrà a prenderti a casa. Se ti dà appuntamento direttamente al locale, anche in questo caso un malessere improvviso sarà utile per dargli buca e cancellarlo dalla tua rubrica telefonica. Mettia- mo invece che lui venga a prenderti a casa: dovrà essere puntua- le e aprirti la portiera dell’automobile».
«Esagerata», commentò Roberto.
«Tu lo fai sempre e non sei l’unico uomo che ho incontrato che ha l’abitudine di farlo».
«Penso che tu sia stata fortunata, perché io invece ritengo che non sia un atteggiamento così comune, non più almeno… Dai, vai avanti, che questa cosa mi sta divertendo tantissimo…».
«Il ristorante non deve essere stellato, va bene anche se è un’osteria, ma di quelle particolari, curate. Diciamo che il loca- le scelto dall’aspirante conquistatore vada bene. A quel punto scatta il rituale della cena. Lui deve aiutarti a togliere e mettere il cappotto, versarti il vino a tavola e tenere sempre d’occhio il bicchiere perché non dovrà mai essere vuoto, guardare solo te per tutta la sera, conversare con disinvoltura».
«Tutto qui?», chiese ironico.
«Ovviamente no. Buoni indizi li darà quello che ordinerà dal menu e, soprattutto, il suo modo di mangiare. Uno che si gusta ogni piatto con la giusta calma, assaporando ogni boccone, si comporterà nello stesso modo anche nella vita: saprà gustarsi ogni momento, non solo a letto».
«In che senso a letto?», intervenne Alessandro che ci stava ascoltando attentamente.
«Te lo spiego fra un paio di anni», gli rispose Roberto.
«Non è giusto papi, mi dici sempre così», protestò lui arric- ciando il suo nasino alla francese in una smorfia di disappunto. Era proprio un bel bambino, alto, ben strutturato, con la pelle di pesca, i capelli castani leggermente ondulati e due occhioni noc- ciola da cerbiatto che ti avrebbero convinta a fare qualsiasi cosa.
«Poi non dimenticarti il discorso del vino. Se uno è astemio semplicemente per presa di posizione potrebbe essere la perso- na più affascinante della terra, ma penserei comunque che ha qualcosa che non va», subentrai per distrarre Alessandro.
«Per fortuna, quando siamo usciti assieme per la prima volta ho fatto scegliere a te il ristorante… Trovo stupefacente che qualcuno sia riuscito a superare la prova. Poi davi i voti? In “forchette”, in “stelle”, in “grappoli” o in centesimi? E io come sono andato quella sera al Canto del Maggio?», scherzò Roberto ridendo di gusto.
«Sei andato benissimo, e lo sai. È stato tutto perfetto, fin dal primo momento. Diciamo che ti ho dato un bel 94/100».
«Solo?»
«Si può sempre migliorare tesoro», gli risposi strizzandogli un occhio.
Si può sempre migliorare. Questa è uno dei capisaldi della mia filosofia applicata a me stessa: tagliato un traguardo, devo subito prefissarmene un altro da superare e deve essere più dif- ficile del precedente, altrimenti che gusto c’è? La copertina di Octopus era uno di questi obiettivi e lo avevo centrato in tempi discretamente brevi: dopo otto mesi di collaborazione, ecco che era arrivata la mia occasione. Octopus era un po’ il New Yorker dell’enogastronomia nazionale: un settimanale giovane che nel giro di qualche anno era riuscito a diventare la testata più influente del settore, scalzando mostri sacri come il Gambero Rosso. Ogni numero almeno un articolo di Octopus veniva ri- preso dalle altre testate di settore o addirittura da quotidiani e tv. Fu un caso per me entrare a far parte della rosa di collaboratori della rivista sulla quale chiunque scriva di enogastronomia vorrebbe apporre la sua firma. Octopus era un traguardo che ancora non mi ero posta quando mi arrivò la telefonata di Gian- ni Casatta, una delle firme gastronomiche più blasonate d’Italia. «Sto per diventare direttore di Octopus e ci terrei ad averti tra i miei giornalisti, ti va?». Domanda del tutto retorica, Gianni lo sapeva bene. Certo che mi andava. Mi andava eccome, non stavo più nella pelle, non vedevo l’ora di iniziare. Dopo i primi numeri, però, avevo già dovuto crearmi una meta ancora più ambiziosa, soprattutto perché, dopo alcuni anni di gavetta e di compensi ridicoli, pensavo che fosse giusto aspirare a qualcosa di più. Quella del giornalista in Italia è una professione che ha due facce: per la gente comune è un lavoro che desta una certa riverenza e considerazione e che dà un bel po’ di prestigio e grossi guadagni; per i giovani che tentano di intraprenderla, in- vece, è qualcosa di incerto, sottoretribuito e dalla gavetta infini- ta. Lavorare tre giorni per confezionare un articolo economico, che di solito è frutto di relazioni coltivate nei mesi, e poi veder- telo retribuito dieci o venti euro non era solo una mortificazione per chi lo aveva firmato, era anche la principale causa per cui la qualità dei quotidiani, in generale, stava vacillando. Quando me ne resi conto, fu un colpo durissimo: ero un’innamorata del giornalismo e pensavo che fosse logico che una testata ti mettesse a disposizione i mezzi per fare il tuo lavoro al meglio, come telefono, trasferte, retribuzione minima anche nei giorni in cui non pubblicavi perché impegnata nelle ricerche delle informa- zioni per un’inchiesta. E invece le cose non stavano affatto così. Per continuare a coltivare la passione giornalistica ci si dovevano inventare altri lavori. C’era chi come me si dedicava agli uffici stampa e chi faceva l’insegnante, il magazziniere, l’impie- gato pubblico. Ovviamente, questo rubava risorse di tempo al giornale. Un cane che si mordeva la coda e che ai direttori dei giornali andava bene, bastava pagare meno possibile. «Che fol- lia», mi ritrovavo a pensare spesso, soprattutto quando vedevo giovani talenti abbandonare le redazioni e la professione perché non ci stavano più dentro con le spese di ogni giorno. Quanto a me, mi piaceva essere una battitrice libera e puntavo più che altro a vedere i miei pezzi pagati di più, tutto qui. E poi c’era un sogno: diventare caposervizio di un mensile o di un settimanale enogastronomico.
«Punto alla copertina di Octopus», avevo confidato un giorno a Zoe.
«Non pensi di esagerare? È già stato un colpaccio riuscire a diventare una loro firma e poi è solo da qualche mese che lavori con loro, chissà quando potrai avere un’occasione del genere…»
«Non è che io non mi accontenti, lo devo fare per me, per tenermi sempre stimolata».
«Quando la metti così, prima o poi ci riesci sempre».
In effetti, c’ero riuscita. Era arrivato il lunedì dell’uscita di Octopus e a svegliarmi fu come al solito mia madre che ogni mattina suonava il campanello del mio appartamento, che stava proprio al piano sotto il suo, per portarmi le brioches fresche di pasticceria e i giornali. Un lusso di cui sentivo la mancanza quando stavo a casa di Roberto.
«Buongiorno cara, hai dormito bene?»
«Ciao mamma, abbastanza, grazie», dissi stropicciandomi gli occhi e sbadigliando. In realtà ero stata sveglia tutta la notte ed ero riuscita ad addormentarmi solo alle prime luci dell’alba.
«Guarda qui che copertina ha fatto il tuo Octopus, davvero graffiante, dopo devi farmi leggere questo servizio di apertura». Ormai anche mia madre aveva acquisito il gergo giornalistico, proprio lei che, fino a un paio di anni prima, continuava a fare pressioni su questa mia scelta professionale. Come darle torto, da un lato: il settore era tra i più difficili, selettivi e precari. Poi, però, le cose avevano iniziato a ingranare e lei si era tranquil- lizzata. Certo, avrebbe preferito una figlia più “normale”, con un posto fisso in banca o da insegnante, ma le ero toccata io e quindi col tempo aveva imparato a rispettare le mie scelte.
«Fammi vedere». Lei non sapeva che a scrivere quel pezzo ero stata io, mentre io non sapevo come sarebbe stata la copertina e come sarebbe stata titolata. «Sorpresa», aveva detto Gianni. «Sadico», avevo pensato io.
«Chi salverà la nonna (e le sue ricette)?». Sullo sfondo un’im- magine dell’infanzia di tutti noi: il lupo, travestito da nonna e infilato sotto le coperte della casa della vecchina, e Cappuccetto Rosso con in mano il suo cestino contenente, invece che la fa- mosa merenda, le guide gastronomiche più comuni, Gambero Rosso, Michelin, Espresso, Osterie d’Italia. «Che idea», pensai. Poi mi misi a leggere l’articolo: può sembrare strano, ma anche se sei tu a scrivere quel pezzo e sai bene cosa dice, leggerlo sulla carta stampata – impaginato e corredato da infografiche o foto – fa tutto un altro effetto.
«Non male», dissi a mia madre, che per tutto il tempo se ne era stata seduta sul mio letto a sfogliare il Corriere della Sera.
«Chi è dei tuoi colleghi che lo ha scritto?», mi chiese. «Io».
«Davvero?», mi disse sgranando gli occhi.
«Sì, davvero».
«E non ci hai detto niente?». Stavolta il tono era quasi di rim- provero.
«Sorpresa», risposi facendo spallucce. Mi prese dalle mani Octopus e iniziò a leggere.
«Non hai risparmiato niente a nessuno, eh? Sei sicura che una cosa del genere non ti si ritorca contro?»
«Sto aspettando di saperlo, mamma», e guardai il cellulare ancora spento. «Lo accendo verso le dieci», mi dissi, ma di lì a poco a suonare fu il telefono di casa.
«Quando vuoi sai essere una tomba». Era Roberto.
«Cosa ne pensi?»
«Sto per entrare in riunione e ti ho chiamata per dirti brava.
Quando avevamo parlato di quell’argomento dei sapori sempli- ci che non si trovano più in giro me lo immaginavo che avresti voluto scrivere qualcosa, ma non credevo che Octopus ti avreb- be dato fiducia».
«Nemmeno io, almeno non così tanta». «Brava tesoro, hai già avuto commenti?»
«Troppo presto. Per ora solo mia madre, che ovviamente si è agitata, come sempre».
«Sono sicuro che andrà tutto bene. Ci sentiamo più tardi, d’accordo?»
«Va bene, a dopo, buon lavoro e… Ti amo».
«Io di più».
Non feci in tempo a riagganciare che il telefono suonò un’altra volta.
«Che bomba, stellina!». Zoe era più eccitata di me. «Sono sicura che con questo pezzo diventi famosa».
«Oppure finisco a fare la lavapiatti», le risposi ridendo. «Adesso ho capito per che cos’era l’appuntamento di questa sera al Black. Stai certa che le bollicine ci serviranno per brinda- re, non per dimenticare».
«Speriamo, in questo momento ancora non te lo so dire. In- crocia le dita per me».
«Non preoccuparti, Cleo. Ci vediamo più tardi al Black», e riappese.
Ci voleva una doccia, poi avrei fatto colazione e, infine, avrei acceso computer e telefono, le mie due finestre sul mondo.
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