Da autista di pullman mancato a pupillo di Quintarelli. La storia di Romano Dal Forno, incontrastato Re dell’Amarone della Valpolicella assieme al suo maestro, incarna esattamene una celebre frase di Nelson Mandela: Un vincitore è semplicemente un sognatore che non si è mai arreso.
Romano Dal Forno nasce in Valpolicella nel 1957, da una famiglia di agricoltori: «Nel 1961, a 35 anni, mio padre decise di comperare una macchina semovente per ridurre la legna del bosco o gli espianti delle campagne in legna da ardere e, grazie a questa attività, riuscì a raggiungere le necessità economiche che la campagna non gli dava. Crescendo, avevo dimostrato poca vocazione agli studi e, attorno ai 15-16 anni, anche repulsione per l’attività agricola. Perché? In primis perché le ragazze non volevano avere a che fare con un contadino, puntavano a un dottore, un ingegnere, un avvocato. E, si sa, da adolescenti le ragazze sono importanti. Il mondo agricolo, poi, lo detestavo perchè mancava di ogni mezzo per poter essere presente nella trattativa del prodotto, ossia erano i consorzi che decidevano quanto pagare i frutti del tuo lavoro». Romano era l’unico figlio maschio della famiglia e il padre, quindi, gli fece una richiesta: quella di trovare un’occupazione part-time per poter seguire anche la campagna di famiglia. Era il 1980, Romano aveva 22 anni e si era appena sposato («a 20 anni avevo già la sensazione di avere la vita che mi sfuggiva dalle mani, per questo mi sono sposato così giovane») e decide di tentare un concorso: «Decisi di sostenere l’esame per diventare autista di pulman dell’ATB, ma arrivai 27mo e i posti erano solo 3… Così tornai a casa dalla mia giovanissima moglie e da nostro figlio Luca che era appena nato e, assieme, decidemmo di fare un po’ di vino. Pavo di venderlo io, di bar in bar, di ristorante in ristorante…». Ma dai bar e dai ristoranti si faceva fatica a incassare, allora decisi di rivolgermi ai privati, vendendo porta a porta. Tutte le mattine, con il magone, perchè mi pareva di andare a chiedere la carità, uscivo e andavo a vendere il mio vino… In verità non me la cavavo male, in 4 mesi fatturavo 50 milioni di lire, era tantissimo per i tempi».
Romano Dal Forno e la moglie erano bravissimi anche a fare economia. Le bottiglie per imbottigliare il loro vino le recuperavano dai vuoti dei ristoranti, andando a raccoglierle di notte, a fine servizio. Ma c’era bisogno del tappo, quello non si riusciva proprio a riciclare. «Così, mi dicono di andare a Parona, dove c’era un sugherificio. Mentre aspetto di acquistare questi tappi mi guardo in giro e vedo delle bottiglie appoggiate su un mobile: una di queste attira la mia attenzione per l’etichetta, era di Giuseppe Quintarelli. Chiesi subito al sugheraio chi fosse questo Qiuntarelli e lui mi rispose con un tono quasi di venerazione. Rimasi talmente copito dalla sua ammirazione per quell’uomo che gli chiesi se poteva presentarmelo, ma il sugheraio mi disse che era un uomo molto risrvato, chiuso, che sarebbe stato davvero difficile conoscerlo».
E così ci mise lo zampino la sorte. «Un giorno scoprii per caso che uno dei ragazzi della mia zona, Celestino Gaspari, oggi conosciuto per la sua cantina Zymé, era fidanzato con una delle figlie di Quintarelli. Non conoscevo Gaspari, perchè era più giovane di me di 6 anni, ma la sorte volle che ci incrociassimo in banca. Mi presentai e gli chiesi di portarmi da Quintarelli. Dopo un paio di settimane riuscì ad avere l’incontro tanto desiderato: tra me e lui fu un colpo di fulmine. Giuseppe Quintarelli aveva 4 figlie femmine, probabilmente ha visto in me il figlio maschio che non aveva mai avuto: ero intraprendente, pendevo dalle sue labbra… Da quel momento abbiamo costruito un rapporto di rispetto e di amicizia basato su lunghe conversazioni. Non ho mai lavorato da Quintarelli, anche se qualcuno lo ha scritto. Quintarelli è stato il mio faro, la persona che mi ha indicato la strada nella quale mi sono buttato a capofitto. La sera del nostro pirmo incontro tornai a casa con una certezza: quella che nessuno mi avrebbe distolto dall’idea di creare la mia cantina, ne mio padre ne mia madre ne mia moglie, solo una grave malattia o un incidente avrebbe impedito di realizzare questo sogno. Così partii, acquistando da Quintarelli le mie prime botti». Era il 1982.
Il resto è storia. In 40 anni Romano Del Forno è riuscito in quello in cui nessun’altro, oltre a Quintarelli, è riuscito a fare: entrare nel mito.
Dal vendere il vino porta a porta a essere Romano Dal Forno, come si fa? Qual è stato il segreto? «Ho dato tutto quello che potevo fare per realizzare questo sogno, spesso sono stato rimproverato dai miei figli per questo, ma se io non avessi preso le cose in questo modo, oggi saremo qui a scrivere un’altra storia, meno eclatante». Il più grande insegnamento di Quintarelli? «Quando ho visitato la sua cantina ho visto il sogno che cercavo, ossia quello di essere l’autore di quel vino e di quell’etichetta. Ho visto la possibilità di non vendere il vino domattina perchè mi si sciupa, e ho capito che si poteva fare un vino talmente buono da indurre i clienti a venirti a cercare, non viceversa. Quintarelli mi disse di diradare l’uva e così ho fatto, immediatamente. Tutti pensavano che fossi pazzo, ma non me ne sono mai preoccupato, sentivo che era la cosa giusta… Ci speravo, e ci ho azzeccato».
E adesso? Quali sono i progetti per il futuro? «Ho iniziato a lavorare molto giovane, per questo ambisco a ritirarmi presto, perchè la figura del padre getta ombra sui figli inevitabilmente. Mia moglie e io, se tutto va bene, vogliamo traslocare in un’altra casa, sempre vicina all’azienda, per lasciare spazio ai nostri figli. A condurre la cantina sarà Marco, il nostro figlio più giovane». Michele e Luca, invece, hanno scelto altre strade.
Romano, un ultima domanda. Se lei non beve i suoi vini, che vini beve? «Amo il vino, ma non ne sono ossessionato, ne faccio un uso moderato, sono un consumatore parco. Amo in particolar modo qualche buon Barolo. E poi mi piacciono i grandi vini toscani».
L’azienda di Romano Dal Forno conta su 20 ettari di proprietà, da cui ogni anno vengono prodotte circa – la quantità varia a seconda dell’annata – 30mila bottiglie di Valpolicella e 20mila di Amarone (prodotto solo nelle annate top, ad esempio nel 2014 non è stato prodotto) che vengono commercializzate per il 30% in Italia 30% e per il 70% all’estero in 40 Paesi.