Solaris, Bronner, Regent, Johanniter, Muscaris, Cabernet Carbon e Cabernet Cortis, Souvignier Gris, Prior. Non è uno scioglilingua ma l’elenco di alcuni dei vitigni PIWI che si stanno imponendo sempre di più sulla scena. Vanno considerati nuovi vitigni, non surrogati o ibridi di varietà già esistenti, e pertanto vanno approcciati con mente libera da preconcetti in degustazione. La domanda che di tanto in tanto mi rivolgete è capire meglio di che cosa si tratta, e allora scendiamo nel dettaglio.
I PIWI (acronimo di PilzWiderstandsfähige), che in tedesco significa proprio “resistenti agli attacchi dei funghi”, nascono in Germania negli anni Cinquanta e dagli anni ‘70 si è iniziato a pensare di utilizzarli per produrre vino da immettere sul mercato. Italia e Francia sono stati tra i Paesi che più hanno ostacolato la legislazione a favore di questi vitigni, ma a oggi le varietà PIWI iscritte al Registro nazionale delle varietà di vite sono 19, di cui 10 a bacca bianca e 9 a bacca nera.
Sono vitigni resistenti, che spesso e volentieri azzerano la necessità di trattamenti in vigna con un conseguente contenimento dei costi di gestione della campagna che si può riflettere anche sui prezzi. A questo si aggiunge, dicono gli esperti, un minore impatto ambientale e la possibilità di coltivarli anche in zone particolarmente ostiche, su territori angusti e su grandi pendenze.
La vera e propria sfida che si prefiggono i PIWI è quella della creazione di ibridi per impollinazione, e che quindi si discostino da qualsiasi forma di OGM, da diverse specie di vite che racchiudano in sé la qualità e la resistenza delle vigne d’origine. Geneticamente questi vitigni sono degli incroci tra la vite europea e la vite americana o asiatica. La genesi di queste varietà è complessa e non facile da descrivere per chi non è un esperto agronomo, ma ci proviamo: si prende il polline da una vitis vinifera europea trasportandolo su una vite di origine americana o asiatica, e così per 5/6 incroci successivi e solo dopo anni e anni di lavoro e di studio dei risultati (circa 15/20 anni) si può arrivare all’iscrizione all’albo dei vitigni ammessi. Per entrare ancor più nello specifico, tecnicamente i passi principali sono i seguenti: individuazione genitori; castrazione fiore femminile ed impollinazione; estrazione vinaccioli; germinazione vinaccioli; trapianto ed allevamento semenzali; selezione biotipi; moltiplicazione biotipi interessanti; ed infine lo studio agronomico dei biotipi. Solo dopo che il biotipo è stato definito di estremo interesse agro-enologico vi è l’iscrizione all’albo delle varietà.
Dal 2000 in Europa è attiva l’associazione PIWI International che promuove lo scambio d’informazioni tra istituti di ricerca, allevatori, coltivatori e produttori dei vini cosiddetti PIWI, che ha lo scopo ultimo di consentire la diffusione delle varietà di vite resistenti ai funghi. A oggi quest’associazione conta più di 350 membri.
Tra gli svantaggi e le difficoltà che bisogna affrontare quando si intraprende il percorso dei vitigni PIWI è doveroso sottolineare il costo iniziale dell’impianto, la difficoltà di reperibilità delle barbatelle e dell’esatta composizione del vitigno col portainnesto, la variabilità nella disponibilità di autorizzazione nelle diverse Regioni, laddove non vengono autorizzate nuove varietà, la non ammissione nelle Doc e nelle Docg, e, infine, le problematiche legate alla loro comunicazione e commercializzazione. Attualmente i vitigni PIWI godono di autorizzazione in Alto Adige, Trentino, Veneto e Lombardia.
Tra le aziende che più di altre hanno creduto e credono nelle potenzialità di questi vitigni c’è Pizzolato, importante cantina veneta di Villorba (Treviso) impegnata nella produzione dal 1991 vino biologico, vino vegano e vino senza solfiti.
«L’obiettivo di un produttore di uve biologiche è di mantenere in equilibrio l’ecosistema e di arrivare a una coltivazione 100% sostenibile e perciò limiterebbe molto volentieri sia il rame che lo zolfo. Un obiettivo, questo, possibile con i PIWI, i vitigni resistenti ai funghi, che permettono di ridurre i trattamenti a 2-3 all’anno», fanno sapere dall’azienda.
Tra favorevoli e contrari, c’è anche chi dice che i PIWI non siano attualmente in grado di riflettere il terroir d’origine e di gareggiare in termini di complessità, eleganza e qualità con i vitigni tradizionali? «Il concetto di terroir – spiega Patrizio Gasparinetti di Studio Progettonataura – è un concetto mentale. Se pensiamo che qualsiasi varietà, ha fatto un percorso di 7mila anni partendo dalla Georgia e trovando habitat ideali in molte parti del mondo, capiamo che tutto è relativo. Certamente non tutti i vitigni PIWI possono andare bene in un determinato territorio, come qualsiasi altra tipologia. Io stesso sono stato meravigliato del fatto di come certi vitigni che non danno espressioni interessanti in Alto Adige, in Veneto diano invece risultati molto buoni. C’è tutto un futuro davanti: è come se disquisissimo di Chardonnay e fossimo a inizio Ottocento. È tutto un mondo da scoprire».
Ho assaggiato alcuni dei vini PIWI di Pizzolato, li ho trovati in generale molto particolari, di facile beva, diversi… curiosi. Tutti i vini PIWI di Pizzolato hanno una bottiglia serigrafata (carina anche da riciclare) con etichetta “narrativa”, costano tutti circa 10 euro in enoteca (li potete acquistare anche online direttamente sul sito dell’azienda, qui), la produzione totale è 45mila bottiglie, distribuite per il momento in Italia e in futuro anche all’estero, in quei Paesi alla ricerca di vini nuovi, come la Germania, l’Olanda, la Svezia, la Norvegia e la Finlandia.