Olga Bussinello e il senso delle donne per il vino (che fa quadruplicare i bilanci)

È stata la prima donna in Italia e in Europa a dirigere di un consorzio vinicolo e fino a sei mesi fa anche l’unica.

Olga Bussinello, sangue trentino al 50% ma nell’animo forse molto di più («mi sono sempre sentita più a casa in Trentino che a Verona»), guida da nove anni una delle più importanti realtà enologiche italiane, il Consorzio Tutela Vini Valpolicella. Da direttrice, coordina 2.300 soci e gestisce tutte le attività dell’ente che riunisce i produttori e i vini della denominazione che quest’anno compie 50 anni, a partire dall’Amarone della Valpolicella, uno dei rossi più famosi del mondo. Il bilancio del Consorzio è quadruplicato da quando lei è direttrice, passando da 500mila euro a 2 milioni. E anche i numeri del Valpolicella nel 2017 lo confermano: 61 milioni di bottiglie, una redditività tra le più elevate d’Italia con circa 24mila euro a ettaro e un giro d’affari di oltre 600 milioni di euro. Se l’economia vinicola della zona sta vivendo un periodo d’oro da un punto delle vendite e dell’immagine, si deve anche a lei. E pensare che alla madre e agli zii trentini, viticoltori della Piana Rotaliana, lo aveva ripetuto più volte: «Ho sempre detto che non mi sarei mai occupata di vino. Dopo la laurea in Giurisprudenza all’Università di Trento, infatti, ho iniziato a lavorare in vari campi, anche in edilizia, poi per una serie di fatalità e di incontri sono arrivata a Roma in Coldiretti nazionale. È stato lì che ho incontrato l’allora presidente dell’Unione italiana vini, fratello di Andrea Sartori, l’attuale presidente del Consorzio Valpolicella. Il direttore di allora andava in pensione e mi ha chiesto di prendere il suo posto. All’inizio mi pareva una follia, poi ci ho pensato, ho visto che era una sfida pazzesca perché il vino era famoso ma la struttura associativa era molto scarna, era tutta da costruire». Così, ha detto sì. «Io vedo il vino da una prospettiva diversa – spiega – non valuto solo l’aspetto tecnico del prodotto. Per me la qualità è data dalla soddisfazione di chi produce la materia prima, di chi la trasforma e del consumatore, che è l’elemento chiave della filiera. Ritengo di aver portato all’interno del Consorzio un nuovo sguardo d’insieme e un nuovo modo di gestire i rapporti tra i soci e gli altri interlocutori».

Come vede lei la politica vinicola del Trentino Alto Adige?
Tra Trentino e Alto Adige non c’è una differenza di qualità oggettiva, bensì un’importante differenza di percezione. In questo ritengo che abbia contribuito molto la promozione turistica, che in Trentino è stata sicuramente meno orientata alla promozioni dei prodotti vinicoli e agroalimentari, concentrandosi maggiormente sulla parte naturalistica. Poi, certo, il Trentino e l’Alto Adige sono molto diversi sia dal punto di vista della tipologia di produzione enologica, sia dal punto di vista delle strutture aziendali.

Entriamo nel dettaglio.
Il vino altoatesino ritengo abbia grandissime potenzialità per quanto riguarda la percezione del mercato, specie sui bianchi che sono visti da consumatori e operatori, sia italiani sia stranieri, come una punta di eccellenza della produzione italiana. La parte di promozione turistica fatta a livello provinciale in tal senso è stata eccezionale, con un turismo di12 mesi all’anno che contribuisce a sviluppare una conoscenza e un apprezzamento verso la cucina e il vino altoatesino di qualità.

E in Trentino?
Il vino trentino è percepito dal mercato come un buon prodotto, con qualche punta di eccellenza sulla spumantizzazione e con un Teroldego, ad esempio, che potrebbe avere un appeal maggiore, anche a livello internazionale, se venisse esportato con uno sforzo maggiore. Per quanto riguarda i vini rossi, in generale, trovo che quelli trentini siano interessanti prodotti da pasto, con un buon rapporto qualità/prezzo, per un mercato di tutto rispetto che incontra un’ampia fascia di consumatori. In generale, però, credo purtroppo ci sia una mancanza di visione su come ottimizzare queste potenzialità.

Si spieghi meglio.
La tendenza trentina ad appoggiarsi a corpo morto sulle strutture pubbliche o sulle realtà cooperative, lasciando a loro la decisione delle sorti del prodotto e le modalità di commercializzazione, credo faccia perdere enormi opportunità, e non consente di sviluppare le capacità imprenditoriali e di marketing dei singoli.

È giusta la scelta trentina di puntare sulle bollicine?
Credo che le bollicine non possano essere l’unico prodotto di punta di un territorio. Sappiamo bene che gli “sparkling” incontrano molto il gusto dei consumatori italiani e stranieri, ma in molti Paesi esteri chiedono anche vini fermi. Per questo il Trentino dovrebbe trovare altri due o tre prodotti fermi da valorizzare al pari del Trentodoc.

Il Teroldego ad esempio?
Oggi l’alcolicità è un limite, non un’opportunità e il Teroldego ha un grado alcolico abbastanza impegnativo. Penserei più al Trentino Lagrein, che ha un’alcolicità minore, al Gewürztraminer, che è molto di moda, o ad altri bianchi come lo Chardonnay e il Pinot Grigio.

Ci vorrebbe una donna alla guida del vino del Trentino Alto Adige?
Perché no… Le donne in genere sono molto creative e organizzate, tendono a fare cosa che non siano solo utili ma anche belle, per cui aggiungono sempre quella punta di glamour che è fondamentale in un mondo come quello del vino, che vive molto anche di emozioni, narrazione ed empatia. Naturalmente questo va in contrasto con il mondo del vino che è maschile autoreferenziale e per certi versi chiuso su se stesso.

Lei di sicuro ha portato uno sguardo nuovo all’interno del Consorzio Valpolicella.
Le sfide sono tante, quello su cui dobbiamo lavorare è il territorio, fatto sia di piccolissime e medie aziende, sia di industriali e coop. Una delle prime cose che ho fatto, quindi, è stata quella di riuscire a proporre progetti comuni a tutti, in modo da stimolare la necessità di lavorare assieme. Sono convinta che in Italia non manchino tanto i soldi ma piuttosto le buone idee: sono quelle che ti consento di avere chi crede in te, che sia il socio, l’ente pubblico o uno sponsor.

A proposito di buone idee, una le è valsa anche la nomination per il Wired Audi Innovation Award, il premio per l’italiano/a più innovativo/a dell’anno…
Si tratta del progetto “Riduci-Risparmia-Rispetta” (RRR), è partito nel 2016 e finirà nel 2019 e prevede un nuovo tipo di certificazione, brevettata nel veronese e garantita dalle istituzioni scientifiche, per le aziende che più si impegnano a tutelare la biodiversità del territorio e a utilizzare meno possibile prodotti chimici. Quest’anno invece abbiamo lanciato il Valpolicella education program, un programma di formazione unico in Italia, rivolto agli operatori del mondo del vino esteri: su 21 candidati solo 7 si sono “diplomati” e saranno per noi i referenti in loco che andremo a utilizzare per le nostre attività nel loro Paese, non solo di comunicazione.

Quali strategie di comunicazione dovrà mettere in campo il vino italiano per il futuro?
Bisogna lavorare molto sul digitale. L’immediatezza nella comunicazione oggi è l’elemento discriminante, quello su cui investire se si vuole creare interesse e attrattiva e muovere veramente l’attenzione nei confronti di un prodotto da parte del consumatore. Il linguaggio va cambiato: il vino è un prodotto e deve essere venduto, non solo agli specialisti.

Quali sono i target su cui puntare?
I Millennials, perché saranno i consumatori di domani. Poi bisogna tornare a lavorare sul mercato nazionale attraverso la ristorazione, i canali Ho.re.ca e GDO e poi cercando di sviluppare un enoturismo legato anche alla visita e alla vendita in cantina.

[da mio articolo su Corriere Imprese Trentino Alto Adige, 12 marzo 2018]

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