La Signora delle Vette | Eleonora Noris Cunaccia, stregata dalle erbe

Non è passato molto tempo da quando in montagna ogni famiglia aveva un nonno che sapeva esattamente dove e quando raccogliere le erbe più belle, quelle con le migliori proprietà curative oppure semplicemente le più buone per far uscire dai fornelli di casa o piatti a modo loro raffinati, proprio grazie a un po’ di ortica o di Buonenrico (lo spinacio selvatico). Perché gli ingredienti, un tempo, non si compravano, li dava la Natura. Bastava seguire le stagioni, gli umori del clima e della terra, e conoscere le piante e i posti giusti dove raccoglierle, dall’alta quota ai luoghi più incolti, come le scarpate, i dirupi, bordi dei fiumi. Chiamateli streghe o stregoni, chiamatela arte o più semplicemente attività contadina: quello della raccolta delle erbe di montagna e delle piante officinali  è un mestiere vecchio come il mondo, che da alcuni anni sta vivendo una sorta di rinascita, di riscoperta, di ritorno alla valorizzazione di saperi ancestrali che portano a sapori dimenticati, primitivi, semplici, genuini e autentici. E anche economici, visto che chiunque può mettersi a caccia della sua erba preferita da cucinare la sera a cena. Un po’ come i funghi.

Ma per qualcuno diventa anche un lavoro. È il caso di Eleonora Cunaccia e Giovanni, i due fratelli titolari di  Primitivizia, realtà artigianale, nota ai gourmet di tutta Italia, dove erbe spontanee di montagna, bacche, resine e radici vengono raccolte da Eleonora (che passa giorni interi da sola in mezzo ai boschi delle Dolomiti di Brenta), portate a casa nel giro di qualche ora, lavate alla fonte del paese (Spiazzo, in Val Rendena), cucinate da Giovanni e invasate.  Il risultato sono piccoli gioielli gastronomici come il ragù di erb o la crema di radicchio dell’orso.

 

Eleonora, come è nata la sua passione per le erbe di montagna?

Ho sempre avuto un’attrazione fortissima per fiori e piante, per la natura in generale, tanto che a 8 anni avevo anche la licenza di pesca. Diciamo che dalla mia più grande passione è scaturito anche il mio lavoro.

 

Andare per boschi in solitudine, dormire nei rifugi da sola. Il suo non è un lavoro facile per una donna, o sbaglio?

Io amo la natura e mi piace essere definita una donna di montagna,  una raccoglitrice d’erbe nomade: sento di avere un’identità fortissima. Raccolgo solo quello che di spontaneo e selvaggio c’è nella natura incontaminata delle Dolomiti di Brenta, e sono orgogliosa di fare un lavoro così eticamente sostenibile, molto rispettoso della montagna e delle sue risorse.

 

Quando inizia la raccolta?

Verso la fine di marzo, a primavera. Si inizia dal fondovalle, dove la neve si scioglie prima e quindi è qui che germogliano le prime piante, di tarassaco e di crescione. Ogni anno, però, quello che si trova è diverso: la raccolta è intuito, va seguito il sole. Dopo il fondovalle,  vado nel bosco, dove ci sono pochissime erbe, e poi verso giugno raggiungo gli habitat davvero integri degli alpeggi, a quota 1600-2000 metri. Qui si trovano dei prodotti della natura di una purezza  e di un’energia dai valori incommensurabili. In malga raccolgo, ad esempio, il Buonenrico, l’ortica, la Bardana. Poi salgo ancora più su, mi spingo fino ai 2200 metri di quota, dove cresce il radicchio dell’orso, una pianta che si trova in tutto l’arco alpino, ai bordi delle valanghe, col diradarsi della vegetazione. A quelle altitudini verso fine maggio raccolgo anche le giovani pigne di pino mugo, che faccio fermentare al sole: lo sciroppo rilasciato si chiama Mugolio che, prima dell’avvento dell’antibiotico, nella credenza popolare veniva usato come espettorante. Noi oggi lo usiamo invece per il gelato, le ricotte e tutte le altre forme del latte.

 

Un tempo le erbe erano un ingrediente fondamentale per la cucina degli alpeggi, oggi, invece, cucinare con le erbe è una cosa chic, d’alta cucina.

Io direi che è chic la cucina povera, tornata alla ribalta anche per necessità economiche. Bastano dieci erbe per mangiare e dieci erbe curative per avere durante tutto l’anno la possibilità di fare menu sani, dai sapori accattivanti, e fare da sé tisane utili per gli acciacchi più comuni.

 

Come per i funghi, anche per le erbe serve conoscenza per raccoglierle. Dove si impara questa “arte”?

Esistono corsi, fatti da esperti, un po’ in tutta Italia, ma certo c’è ancora molto da fare per diffondere questa cultura che a un certo punto della storia si è persa. Per una prima infarinatura può essere utile anche  e il volume che ho curato personalmente per il Trentino (http://issuu.com/alessio_p/docs/20081014_erbespontanee_190x265, ndr). La cosa più importante delle erbe è conoscere il loro contrario, ovvero la pianta velenosa che assomiglia a quella buona. Ma se proprio non si riesce ad andare a caccia di erbe, almeno facciamo l’orto…

 

Ma come, lei non era contro le cose addomesticate?

L’orto è diverso, è una cultura e fa parte della storia dei popoli. Orto oggi significa una vita più sana, un’alimentazione migliore e tanti soldi risparmiati! A mio avviso tutti gli amministratori pubblici dovrebbero incentivare questa pratica, mettendo a disposizione spazi comuni. A Spiazzo, il mio paese, l’anno scorso l’aiuola davanti alla chiesa è stata sostituita da un grande orto didattico, proprio per riavvicinare la gente a questa tradizione. Basta un balcone per avere i propri aromi e qualche verdura buona e genuina.

 

Molti chef usano le sue erbe per i loro piatti. Ma lei, nella sua cucina, come le utilizza?

In mille modi, ma ultimamente mi diverto a usarle per confezionare dei panini che definirei “gourmet”, fatti, ad esempio, con il pane nero, il burro di malga o il mascarpone, il salmerino, germogli di luppolo e un po’ di ginepro grattugiato. Mi piace molto anche la mia versione di hamburger, fatto con carne fresca, pane, foglioline di tarassaco o Silene selvatico (che crudo sa di pisello), fiori di salvia pratense, un formaggio di malga, un po’ di cipollotto selvatico (ci sono 28 tipi di agliacei in Italia), e poi il ketchup di rosa canina, ultimo nato in Primitivizia, fatto solo con le bacche della rosa selvatica e lavorato con aceto, sale, zucchero. Zero aromi, zero conservanti. Naturale, come tutto quello che faccio.

(Questo articolo è stato pubblicato su A Tavola, maggio 2012)

 

 

 

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