Ogni appassionato di vino, probabilmente, ne ha bevuto almeno una bottiglia. Perché l’Annamaria Clementi è l’etichetta di punta di una delle maison franciacortine più famose d’Italia, Ca’ del Bosco, nonché la bollicina made in Italy più costosa in assoluto: la versione Brut costa circa 90 euro in enoteca, quella Rosé 150 euro. Prezzi da champagne blasonati, insomma. I wine lover e tutti i sommelier sanno che Annamaria Clementi è il nome della madre del fondatore di Ca’ del Bosco, Maurizio Zanella (oggi anche presidente dell’Istituto di tutela del Franciacorta), e spesso credono sia un etichetta dedicata alla sua memoria. Ma non è così. Perché lei, Annamaria Clementi, nata a Bormio il 17 aprile del 1928, ha da poco spento 84 candeline ed è in grandissima forma, nonostante qualche acciacco dell’età e qualche problema di salute. Da un bel po’ di anni questa radiosa signora âge dal piglio da ventenne si è ritirata nella casa costruita dal marito Albano a Ossana, in Val di Sole, suo paese natio. Una casa in stile alpino, arredata con gusto, che Annamaria ama definire «il mio eremo» e che da cui proprio non ne vuole sapere di allontanarsi, cocciuta come un ariete (il suo segno zodiacale), anche se i figli e i nipoti, tutti stanziati in Franciacorta, non aspettano altro che averla con loro. «Non se ne parla, io sto bene qui, nella tranquillità di Ossana, tra le mie amate montagne», risponde Annamaria mentre con un gesto della mano motiva la sua scelta indicando il paesaggio che regalano le ampie vetrate di casa sua: la valle, i pendii, il giardino delimitato dagli steccati in legno, i boschi dove un tempo andava sempre per funghi con Albano, scomparso ormai 13 anni fa.
Nella cantina di Annamaria Clementi si trovano tutti i numero 1 delle annate del Franciacorta che porta il suo nome, anche se lei – sorpresa – di vino ne beve pochissimo e praticamente solo il Maurizio Zanella, ovvero un uvaggio rosso di gran classe.
Fatto sta, che le radici di una delle bollicine più note d’Italia e acerrime concorrenti dei TrentoDoc di casa nostra vengono ancora dal Trentino. Una storia che vale la pena ripercorrere, proprio in compagnia di Annamaria Clementi (AMC) e di suo figlio, monsieur Maurizio Zanella (MZ).
Signora Annamaria, ci racconta la sua storia?
AMC. Sono nata a Bormio, seconda di tre figli, due femmine e, l’ultimo, un maschio. Ho perso mio padre molto presto, ho assistito alla guerra e per fortuna mia madre era una donna molto forte, capace di tenere testa a tutti, persino ai militari tedeschi…. Fino alla IV elementare ho vissuto a Bormio, poi sono stata mandata alle Marcelline di Bolzano: stavo lì tutto l’anno, tornavo a casa solo per le feste di Natale e le vacanze estive. Mia madre aveva un albergo e noi fratelli, quando non eravamo a scuola, la aiutavamo nella sua attività. È stato a Bolzano che ho conosciuto mio marito Albano Zanella, che a quel tempo faceva lo spedizioniere. Tre mesi dopo il nostro primo incontro eravamo già sposati.
E poi?
AMC. Dopo due anni ci siamo trasferiti a Milano in cerca di fortuna. Maurizio aveva due anni. Eravamo talmente senza soldi, che quando è nata mia figlia Emanuela mio marito dovette chiedere all’amministratore del condominio dove abitavamo di usare la caparra dell’affitto per togliermi dalla clinica… A Milano Albano iniziò a vendere elettrodi per saldature e poi, con degli amici che lavoravano con lui – uno era di Bolzano – decise di fondale una ditta di trasporti internazionali, la Sitam. I primi soldi che guadagnò, me lo ricordo come fosse oggi, li usò per un investimento immobiliare. Albano aveva la mania del mattone e il caso volle che sul Corriere della Sera ci fosse un annuncio di vendita di un piccolo appezzamento di 2 ettari a Erbusco. Decidemmo di andare a vederlo.
Che anno era?
AMC. Il 1962. Oltre al terreno c’era una cascina soprannominata Ca’ del Bosc e il mezzadro era disposto a vendere per 3 milioni di lire. Andammo a vedere il posto con i nostri figli, Emanuela era molto piccola e io chiesi alla contadina un po’ di acqua per dissetarla: la vidi scendere in una botola nel pavimento per poi uscirne con una bottiglia di vino riempita dell’acqua piovana raccolta da vasche con dentro di tutto – rane, lucertole, insetti – e poi filtrata con panni di lino e bollita. Era così che ottenevano l’acqua potabile a Ca’ del Bosc, perché a quei tempi non c’era né pozzo, né elettricità, né una strada per raggiungere la proprietà…
Come mai decideste di acquistare un luogo così?
AMC. Mio marito, infatti, inorridì. Fui io che me ne innamorai immediatamente: non so, era un luogo che aveva un fascino tutto suo… Così, la comprammo e la prima cosa che fece Albano fu costruire il pozzo, che costò più di quello che avevamo pagato la proprietà!
Quella doveva essere la vostra casa per i fine settimana?
AMC. In teoria, sì. Ma nel frattempo capitò un’occasione nella bergamasca, a Costa di Mezzate: vendevano un terreno abbastanza esteso coltivato a grano, anche lì con una cascina. Era tutta pianura e io credevo di morire, abituata alle montagne. Albano ristrutturò la casa e fece gestire l’appezzamento a una famiglia, con 12 figli, che fece trasferire dal Trentino. Sapeva che avevano problemi economici, così diede loro una casa e un lavoro.
Una persona di gran cuore.
AMC. Albano era molto dolce con me, aveva un gran cuore è vero, ma è anche sempre stato molto duro, rigido sul lavoro.
Quindi Costa di Mezzate divenne la vostra seconda casa?
AMC. Sì, lì ci andavamo il sabato e la domenica. Ca del Bosc’ in quel periodo fu abbandonata e mio marito voleva venderla: ma sulla collina dove oggi c’è la cantina io avevo deciso di fare la mia casa e gli vietai di vendere. Così, da Costa di Mezzate decidemmo di stabilirci a Erbusco. Ca’ del Bosc veniva gestita dalla famiglia Gandossi e noi tutti i sabati prendevamo il treno dalla stazione centrale di Milano e andavamo in Franciacorta. Maria Rosa Gandossi, figlia del fattore, oggi lavora in Ca’ del Bosco…
Ma la tenuta, però, era appena di 2 ettari. Come andarono le cose?
AMC. Mio marito aveva delle visuali molto ampie e decise di dare carta bianca al fattore, affidandogli un carnet di assegni, per comprare altra terra attorno a Ca’ del Bosc. Erano quasi tutti terreni a bosco, incolti o tenuti male, e spesso compravamo veramente a poche lire… Il sogno iniziale di Albano era quello di creare ad Erbusco una fattoria, dove si sarebbe prodotto frutta e allevato cavalli, vitelli, maiali.
MZ. Era pazzesco. Da un cavallo mio padre ne acquistava dieci, venti; da qualche vitello, poco dopo spuntava una mandria intera. Lui era così…
Niente vino?
AMC. Ma sì, anche un po’ di vino, ma certo non pensavamo che potesse essere il centro della nostra attività. Io sono praticamente astemia e mio marito beveva pochissimo. Anche mio figlio Maurizio non beve molto…
Maurizio Zanella annuisce condiscendente. E interviene. «Raggiunti i 10-15 ettari i miei genitori iniziarono a sistemare il terreno per piantare il frutteto e realizzare la fattoria. Fu allora, nel che venne piantata anche la prima vigna a Ca’ del Bosc, per mano di Franco Ziliani, il patron delle cantine Guido Berlucchi».
Come mai?
MZ. I regali che i mio padre faceva a Natale per i suoi clienti erano acquistati da Berlucchi. Per questo gli venne naturale chiedere a Ziliani se per quell’ettaro scarso che aveva intenzione di coltivare a vigneto, si potesse occupare lui di piantargli un po’ di Pinot Bianco, di Pinot Nero e di Pinot Grigio, che a quel tempo era la quinta Doc d’Italia e si chiamava Franciacorta Pinot.
Come passate dall’idea della fattoria a quella di cantina?
AMC. Era il 1968 e Maurizio iniziava a manifestare, diciamo così, qualche problemino scolastico, vero Maurizio? – ammonisce con un sorriso il figlio – . Pensi che una volta gli diedi persino una zoccolata in faccia perché non studiava e per fare in modo che mio marito non si accorgesse del segno che gli avevo lasciato, lo vestii da cowboy…
MZ. Mamma che male, me lo ricordo ancora… Comunque nel 1968 e 1969 Milano era il fulcro della partecipazione attiva degli studenti. Quando frequentavo le scuole private ero di Lotta continua, poi, quando ero iscritto al Liceo Volta diventai comunista. Ma la scuola l’ho finita a Iseo, dove mi sono diplomato in Ragioneria, perché al Volta mi bocciarono due volte…
AMC. E ti abbiamo mandato anche in Inghilterra a lavorare, per punizione!
Insomma, lei Maurizio se ne stava tutto solo a Iseo a frequentare Ragioneria, in attesa che arrivassero i suoi genitori nel week end?
MZ. Neanche per idea. Io stavo benissimo da solo e il fine settimana tornavo dalla fidanzatina a Milano, quindi praticamente non ci vedevamo mai la mia famiglia ed io.
Ma quando nacque l’amore per il vino?
MZ. A 17 anni, per puro caso.
AMC. Le istituzioni bresciane, mi pare l’assessorato all’Agricoltura, avevano organizzato un viaggio-istruzione, a sfondo enologico, in Francia. Mio marito e io decidemmo di mandarci Maurizio.
Cosa andaste a visitare in Francia?
MZ. La prima cantina che visitammo fu Romanée Conti, in Borgogna (oggi è considerata la più prestigiosa cantina del mondo e quella con i vini più costosi di tutto il globo, ndr). L’età media del gruppo con cui viaggiavo era 60 anni, tutti viticoltori e proprietari di cantine in Lombardia. Arrivati davanti a Romanée Conti, ricordo che non volevo scendere: erano le 11 del mattino e io pensavo che questi erano pazzi a voler bere vino a quell’ora. Ovviamente, dovetti sempre scendere dal pullman e fare le degustazioni e per tutto il viaggio mi accorsi che i vignaioli lombardi continuavano a criticare: c’erano delle vecchine che facevano gli innesti a mano e loro invece – dicevano – erano più furbi perché li compravano in vivaio e costavano meno; in Francia avevano questi vigneti con le piante fitte fitte (circa 10mila a ettaro), cosa che costringeva a una vendemmia fatta tutta a mano, mentre in Lombardia si raccoglieva l’uva con il trattore; i francesi usavano le botti piccole, le barrique da 250 litri, mentre in Lombardia c’erano le vasche in cemento, vuoi mettere? Ecco, per tutto il viaggio sentii queste cose e, a un certo punto, mi si accese una lampadina.
Ovvero?
MZ. In Romanée Conti degustammo sei vini rossi e poi il loro bianco, il Montrachet, uno Chardonnay superiore, in termini degustativi, a tutti i loro vini rossi. E i miei compagni viticoltori criticarono anche questo. Io non capivo nulla di vino e ascoltavo, ma fui l’unico a chiedere di poter acquistare qualche bottiglia come souvenir. I signori della cantina mi dissero che avevano solo tre bottiglie da vendermi, e di seconda scelta: costavano, in termini attuali, circa 500 euro, e io in tasca avevo il corrispondente di oggi di 480 euro. Così mi rivolsi a uno dei miei compagni di viaggio per chiedere un prestito e poter comperare quelle bottiglie. Me li diede, senza sapere a cosa mi servissero, e una volta in pullman mi chiese spiegazioni. Tutti insorsero dandomi del pazzo e dicendomi che con qui soldi avrei comperato 300 delle loro bottiglie. E capii.
Comprese che era meglio produrre meno e vendere il vino a prezzi maggiori che viceversa.
MZ. Esatto. Il nostro viaggio proseguì anche in Champagne, visitammo molte cose interessanti e una volta tornato a casa andai a parlare con mio padre.
AMC. Tuo padre vide in te, per la prima volta, un’intuizione interessante…
MZ. Eh sì, mamma, del resto fino a quel momento avevo pensato solo ad andare in moto e a cazzeggiare… Vede, la mia fortuna, in quel viaggio in Francia, è stato essere vergine, non venire da una famiglia contadina e quindi non avere preconcetti o tradizioni che potessero influenzarmi. Del resto, in Lombardia si era figli di un’agricoltura di massa, dove prevaleva il risparmio a favore della quantità: la campagna doveva rendere, questo era il must e, d’altro canto, la disgrazia di un’agricoltura piccola e rurale come quella lombarda, che invece avrebbe dovuto puntare tutto sulla massima qualità. In Italia l’estensione media di un’azienda agricola mi pare sia di 1,8 ettari, come si può pensare di fare quantità? Ancora oggi c’è questa mentalità, non si è capito che è la strada sbagliata…
Quindi, torna a casa dal viaggio in Francia, parla con suo padre e cosa succede?
MZ. Mio padre disse che se quella era la mia idea, allora, per realizzarla, dovevo chiedere un po’ di soldi in banca. Pensi, mi fece credere che andavo in banca con mia madre ad accendere un mutuo di 160 milioni di lire: voleva che io pensassi che i soldi fossero della banca, che me li prestava per costruire la cantina, invece erano, ovviamente, quelli di mio padre. Quando abbiamo fatto la cantina non è che si è imposto su come sarebbe dovuta essere, mi ha sempre fatto sentire attore unico di questa cosa, anche se in realtà lui da dietro manovrava. Mi faceva sentire totalmente immerso in questa cosa, mi sentivo l’attore unico: è stato così che mi sono innamorato totalmente di questo progetto e, in termini di passione, ero una locomotiva, che lui ha sempre saputo valorizzare e fomentare.
E il diploma di Ragioneria?
AMC. Senta, senta cosa ha combinato…
MZ. Cosa ho combinato? Semplicemente, quando feci l’orale mi trovai di fronte dei professori appassionati di agricoltura e così li ho portati a parlare di vino, mettendomi a spiegare loro come si faceva il metodo champenoise, quindi tutto il procedimento dal remuage fino alla sboccatura. Questo è stato il mio esame di Ragioneria.
Insomma, Ca’ del Bosco è nata da un’intuizione di un ragazzino…
MZ. Sì, ma soprattutto grazie alla non pianificazione apparente di un business, come fa, in un certo senso, un artista. Ca’ del Bosco è nata così: con un pazzo scatenato come me che andava al di là dei numeri e con mio padre, invece, che faceva quadrare i conti. Lui non capiva, da commerciale, tutto quel lavoro lungo anni prima di mettere in commercio delle bottiglie, infatti quando Ca’ del Bosco per prima in Italia decise di fare il Novello mio padre era felicissimo: finalmente un prodotto industriale, da fare e vendere poco dopo. Sono stato il primo a fare il Novello e il primo a smettere di farlo. E ovviamente mio padre si arrabbiò moltissimo quando smettemmo col Novello…
Ma, insomma, suo padre Albano credeva in Ca’ del Bosco o no?
Sì, ma continuava a dirmi che il mio era un lavoro del cavolo, perché ero sempre a contatto con camerieri e osti, mai con commercialisti, avvocati, notai…. Comunque fu lui, poi, ad avere il merito di un’altra operazione fondamentale.
Quale?
Quella di far entrare in società una realtà importante come Santa Margherita. Era il 1994 e ci trovammo di fronte a una scelta: restare con i nostri 60 ettari e una produzione di 500mila bottiglie senza poter andare avanti nel nostro progetto qualitativo, oppure trovare qualcuno che investisse per far continuare a crescere Ca’ del Bosco. La mia famiglia, del resto, non se la sentiva di continuare a investire nei miei “capricci”. Per cui nel 1994 mio padre trovò la soluzione, sofferta, ma posteriori io dico per fortuna, di trovare un partner serio come la famiglia Marzotto con Santa Margherita, entrata al 60% nel business di Ca’ del Bosco, non nel patrimonio immobiliare, tanto che la cantina paga l’affitto alla famiglia Zanella per l’uso degli immobili.
AMC. L’accordo con Santa Margherita s è svolto qui a Ossana, in gran segreto, seduti a questo tavolo dove siamo noi ora. Ricordo che c’era un’atmosfera austera: quando mio marito lavorava, del resto, era proibito disturbare o parlare. Non doveva volare una mosca. E quando si arrabbiava, parlava in trentino.
Quindi il maggiore azionista di Ca’ del Bosco, oggi, è Santa Margherita?
MZ. Esatto, ma in termini decisionali c’è sempre un raffronto – spesso dibattuto – tra me e Santa Margherita. Negli ultimi 18 anni abbiamo investito 50 milioni di euro, la famiglia Zanella per il 40%, i Marzotto per il 60%: i risultati in termini produttivi sono stati eccellenti e unici. Santa Margherita è fondamentale per gli aspetti finanziari, economici e assicurativi, mentre la parte produttiva e di pubbliche relazioni la seguiamo noi, così come la rete commerciale Italia. All’estero, invece, ci pensa Santa Margherita, che ha 8 persone stanziate all’estero per l’export.
Mi pare che lo sposalizio tra i Zanella e i Marzotto sia andato bene, o sbaglio?
MZ. È stato un matrimonio molto bello soprattutto perché è stata salvaguardata l’identità di Ca’ del Bosco, che rappresenta un patrimonio enologico nazionale indiscutibile. Per questo motivo sono molto soddisfatto e felice: senza Santa Margherita non avremmo potuto fare tutto quello che abbiamo fatto. Certi investimenti qualitativi che ci hanno visti impegnati in questi anni sono unici al mondo…
Ma qual è stato il ruolo di Annamaria Clementi in tutto questo?
AMC. Guardi, io ho sempre cercato di supportare la mia famiglia. Albano usciva la mattina presto e rientrava la sera tardi e a me bastava vederlo anche solo per mezzora, perché sapevo che lavorava per noi ed ero innamoratissima di lui, come lo sono tuttora.
MZ. Mia madre mi ha sempre protetto dall’ira funesta di mio padre, che spesso mi avrebbe voluto sotterrare! Per lui Ca’ del Bosco era un progetto folle. Annamaria è sempre stata la mamma che protegge il figlio viziato: ha sempre coperto tutte le mie marachelle, come quella volta che ho distrutto una Range Rover nuova di zecca e sono andato a comperarne una identica perché mio padre non si accorgesse di nulla… Mi ha sempre sostenuto anche sul lavoro, anche quando mi sono messo in testa di far fare il cancello d’ingresso ad Arnaldo Pomodoro, oppure quando ho deciso di fare un libro chiamando fotografi famosissimi a fare degli scatti che raccontassero Ca’ del Bosco. Helmut Newton, ad esempio, sono riuscito a convincerlo tramite un ristoratore di Los Angeles suo amico. La parte economica era stata una follia, mi pare circa 80 milioni di lire del 1989, per fare una settimana di shooting fotografico con modelle, parrucchieri, il suo compenso, i suoi assistenti. Mio padre non capiva tutte queste cose… Oggi, però, uno di quegli scatti, una stampa, l’ho venduta a 200mila euro da Christie’s.… La verità è che se non ci fosse stata mia mamma non ci sarebbe stata questa Ca’ del Bosco, sarebbe stata una cantina più concreta, più umile, sarebbe diventata una cosa più commerciale. Forse avremmo guadagnato di più, ma non saremmo andati verso queste “visioni”.
Anna Maria, è orgogliosa di suo figlio?
AMC. Certo. E lo sarebbe anche mio marito.
Maurizio sorride e ringrazia con un bacio la madre. Poi aggiugne: «E’ per questo che è stata dedicata a lei l’etichetta di bollicine più importante d’Italia». È ora di pranzo e tutti assieme andiamo a festeggiare, con un giorno di anticipo, il compleanno di Annamaria al ristorante Antica Osteria di Ossana: il giorno dopo avrebbe tagliato il traguardo di 84 anni di vita caparbia, sempre alle prese con uomini indomabili, iperattivi, geniali. Che l’hanno amata e adorata per la sua capacità di amplificare le loro capacità ed essere d’aiuto nel tirare fuori sempre il meglio, da tutto e da tutti. Una grande donna che ha fatto grandi i suoi uomini, Albano e Maurizio, e che oggi si prende i suoi spazi nel suo “eremo” di Ossana, dove le porte sono sempre aperte per i suoi «gioielli», come ama definirli, ovvero i quattro nipoti per cui ama cucinare canederli e tortel de patate, i suoi cavalli di battaglia assieme alle lasagne.
INFO- CA’ DEL BOSCO OGGI
Ca’ del Bosco oggi conta su 180 ettari di vigna, non tutti in proprietà, e una produzione di 1,3 milioni di bottiglie l’anno, che nel 2015 dovrebbe arrivare a quota 1,7 milioni. Il fatturato è di circa 25 milioni di euro. «Tra tre anni – spiega Maurizio Zanella – raggiungeremo il massimo della nostra capacità produttiva, perché crediamo nella viticoltura diretta come segreto del vino di qualità. Ciò significa che una produzione maggiore non saremmo in grado di seguirla direttamente e non rientra nella nostra filosofia». I vigneti di Ca’ del Bosco sono oggi in conversione biologica: «Ci tengo a precisare che per noi non è una questione di marketing come per molti altri in Italia», sottolinea Zanella. La cantina, a due passi dal casello di Rovato, è un giardino vitato – pieno di sculture, opere d’arte e con tanto di eliporto – che merita la visita. Il core business di Ca’ del Bosco sono le bollicine metodo classico Franciacorta, a cui affianca una piccola produzione di vini fermi.
(mio articolo su TrentinoMese, maggio 2012)
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Sono un ex dipendente Sittam ed ho molto gradito leggere questa bella storia di vita di operosita’ italiana.
Grazie Diego.