Sex and the Wine | 11 | Enologia applicata

Ve la ricordate la pubblicità a cartoni animati del whisky Macallan?

Era il 1990, se non ricordo male, e quello era uno dei miei spot televisivi preferiti. C’era una povera bottiglia (femmi- na) che cercava, invano, di essere riempita dal whisky Macallan, il quale, però, non era ancora invecchiato a sufficienza. A pen- sarci ora, i doppi sensi si sprecavano, ma al tempo ero abbastanza piccola per non capirli.

«Macallan, sono io… Sei pronto per me?», sussurrava con tono reverenziale la piccola bottiglia bianca, eterea, sinuosa.

Lui, Macallan, una grossa botte coricata nel letto, si stirac- chiava e, assonnato e un po’ scocciato, le chiedeva: «Da quanti anni sono qui?»

«Da cinque anni», rispondeva con un sospiro la bottiglia. «No, non bastano», replicava lui, secco e borioso.

«Ma quanto tempo dobbiamo ancora aspettare?», diceva la poverina sconsolata, e se ne andava mesta mesta e affranta.

Lui si voltava dall’altra parte e si rimetteva a dormire. Perché Macallan, «prima di incontrare una bottiglia, aspetta almeno sette anni», diceva la voce fuoricampo. E lo spot si chiudeva con
il claim “Il gusto di saper aspettare”.

Ecco, ci sono anche degli uomini che si concedono il gusto di saper aspettare. Troppo però. Noi li abbiamo etichettati come tipi “Macallan”, così quando uno di questi ci spezza il cuore abbiamo qualcosa per cui riderci sopra. Sono quegli uomini che, chissà perchè, pensano che qualcuno li aspetterà per sempre, sa- prà capire le loro assenze e i loro tempi, in religiosa attesa. Ma l’Odissea è un poema e la storia di Penelope ormai non se la beve più nessuno: chi ha mai creduto che la moglie di Ulisse sia stata vent’anni senza mai cadere nella rete delle tentazioni carnali con tutti quei Proci che le facevano la corte? Ce ne sarà stato almeno uno carino, con cui divertirsi la notte, dopo che aveva disfatto la tela, no? Penelope, simbolo per antonomasia della fedeltà coniu- gale femminile, è tanto quanto la storia del principe azzurro… E infatti, guarda caso, se vai su Wikipedia, trovi: “Non tutte le versioni sostengono la castità e la fedeltà di Penelope verso il marito. Secondo alcune leggende la donna amò il dio Ermes, con il quale condivise il suo letto e dalla quale fu addirittura resa incinta, concependo il dio Pan”. Mica uno qualsiasi: Ermes nel- la mitologia greca è il dio dei confini e dei viaggiatori, dei pa- stori e dei mandriani, degli oratori e dei poeti, della letteratura, dell’atletica, dei pesi e delle misure, del commercio e dell’astuzia. Mi immagino lo choc quando Penelope si è vista tornare Ulisse, dopo vent’anni di vagabondaggi in giro per mari e monti, di cui una decina trascorsi a divertirsi con la ninfa Calipso.
Ma oltre ai tipi “Macallan”, le ragazze e io avevamo coniato altre divertenti categorie con cui etichettare chi transitava sulla nostra strada. Era una frizzante sera di fine maggio. Ce ne stavamo lì, con il nostro aperitivo in mano (un bel rosso carico, il Gran Masetto di Cantina Endrizzi), a chiacchierare del più e del meno godendoci la frescura della sera dopo una giornata di afa e di corse.

«Stefano è proprio un uomo “in barrique”», sbottai riaggan- ciando la telefonata che aveva interrotto il nostro relax.

«Era lui?», chiese Zoe. Annuii sospirando e lei aggiunse di- vertita: «Barrique?»

Stefano e io ci eravamo conosciuti al Salone del Gusto di To- rino, presentati da un amico comune, produttore di vino. Di lui io conoscevo solo la voce, che sentivo in radio una volta alla settimana durante il suo programma Enotime, in onda la sera del mercoledì su Radio2. Conoscerlo fu per me davvero emo- zionante e lui si dimostrò subito molto interessato al mio entu- siasmo gastronomico che a quei tempi iniziava a muovere i suoi primi passi da solo. Ci scambiammo i recapiti e ci salutammo. Qualche mese dopo, gli telefonai. Il direttore di una radio locale mi aveva chiesto di buttare giù una proposta per un programma ideato e condotto da me. Non sapevo da che parte iniziare, ma cosa volevo fare ce lo avevo ben chiaro.

«Una trasmissione che si chiama Music Gourmet, con due conduttori, uno esperto di musica, l’altro (che sarei io) che inve- ce parla di vino e cibo, in modo scanzonato e che gioca un po’ anche a sedurre l’ingessato esperto di musica… Che ne pensi?».

Stefano era stato in silenzio per qualche secondo, un tempo che a me sembrò eterno, poi sentenziò: «Un’idea superlativa… Non so come ho fatto a non pensarci io, che sono anche un musicista… La facciamo insieme questa cosa, ma su Radio2 nazionale».

Ad ammutolire, a quel punto, fui io.

«Cleo, ci sei?». Ero al secondo anno di università e, contem- poraneamente, avevo iniziato a lavorare nella redazione di un quotidiano locale. La mia inesperienza era certamente smussata da una gran buona volontà, ma questo non mi pareva sufficiente per poter ambire a tanto.

«Sì… Sei sicuro? Tu ed io, un programma insieme, sul nazio- nale?»

«Sicurissimo. Fammi parlare con il direttore di rete e poi ti faccio sapere».

«D’accordo, a presto allora… E grazie».

Un mese dopo eravamo in onda. Music Gourmet diventò in breve tempo uno dei programmi più ascoltati di Radio2, ogni giovedì me ne andavo a Roma, facevo le mie tre ore in diretta con Stefano, poi andavamo a cena ogni volta in un locale diver- so e il giorno dopo me ne tornavo a casa. Stefano era davvero un bell’uomo, aveva un sacco di giovani fan che gli facevano la corte e io mi divertivo a scherzarci sopra. Poi un giorno lui se ne uscì con una cosa che mai mi sarei aspettata. Fu durante una pausa pubblicitaria di Music Gourmet.

«Perché invece di ripartire domani non ti fermi per il fine set- timana? Ho già chiamato il tuo hotel per prolungare il tuo sog- giorno, il posto c’è…».

«Perché, è venuto su qualche lavoro dell’ultimo minuto?», risposi io con ingenuità. In effetti, ogni tanto capitava che ci com- missionassero qualche spot per qualche azienda, oppure che ci chiamassero per condurre qualche serata.

«No, mi va di passare un po’ di tempo con te», rispose lui al- zando le spalle ed evitando i miei occhi. Stefano aveva vent’anni più di me, ma non era questo che non mi aveva fatto mai pensa- re a lui come una possibile conquista amorosa: per me Stefano era un mito, uno con cui mi piaceva stare per imparare e per vederlo in azione. Questo mi bastava e mi appagava. E poi ave- va talmente tante donne che gli gironzolavano attorno che non avrei mai pensato che potesse interessarsi a me. Ero totalmente confusa e spiazzata, non sapevo cosa rispondere. Poi, decisi di non pensare e di prenderla con spensieratezza.

«Va bene… Se mi vuoi far vedere Roma, io ci sto», scherzai, poi con tono serio aggiunsi: «Vediamo come vanno le cose, ma non ti aspettare niente, va bene?»

«Certo», rispose lui con un sorriso che gli riempì tutto il viso. Era al settimo cielo. Io, invece, non sapevo dov’ero, ma lì stavo e avevo deciso di “ballare”. L’ultima sera del mio week-end romano finimmo a letto assieme, più perché lo voleva lui che per- ché lo volessi io, ma fu, comunque, decisamente “interessante”. Tornai a casa e già dalla settimana seguente le cose cambiarono. Stefano, finita la trasmissione aveva un impegno che gli impe- diva di cenare insieme, né mi avrebbe raggiunta dopo, perché avrebbe fatto troppo tardi.

«Sono maggiorenne e vaccinata, Ste, non pensi che invece di tirare fuori queste scuse patetiche potresti dirmi che volevi venire a letto con me e ora che ci sei riuscito tutto l’interesse nei miei confronti è svanito? Mi viene da dubitare anche il tuo interesse professionale nei miei confronti…», gli dissi guardandolo dritto negli occhi.

«No, non è affatto così. Ti spiegherò». La spiegazione arrivò molte settimane dopo e, riassumendola, fu questa: che io ero una cosa troppo preziosa per coinvolgermi nei suoi casini, che prima doveva sistemare le sue crisi post-separazione, i problemi con i suoi figli, l’ex amante che continuava a tormentarlo, mette- re a posto alcune cose di lavoro e chiudere il suo secondo Lp su cui era in ritardo clamoroso. Solo sistemate queste cose poteva dedicarsi a me.

«Misuro i tempi e gli spazi che mi tocca vivere e so che non funziona come sto vivendo», mi aveva detto con espressione in- nocente. «Dovrei fare degli aggiustamenti drastici Cleo, lo so, ma non ne ho voglia. Avrei voglia di tutt’altro che pensare al lavoro e di stare dietro a tutto il castello di cose che per anni ho messo su… Compensazioni a catena, come sai, ma in mezzo anche tante cose importanti da non sacrificare. Vorrei essere più concreto…». E io dovevo lasciarlo nella sua tana, a risolversi i suoi casini da solo e, intanto, «cogliere l’attimo giusto, trovarci a qualche incrocio». «Trovarci a qualche incrocio?», esclamai io disgustata. «Ma se avevi tutti questi casini, non potevi pensarci prima di coinvolgermi?». La risposta furono scuse e la solita, terribilmente inetta frase: «Dammi tempo, ma non so quanto». Io non sono mai stata né una Penelope né una tipa da incroci, né una che ama stanare chi si vuole barricare dentro se stesso e così la storia finì lì. Scoprii un po’ di tempo dopo che la vera indole di Stefano era davvero difficile: poteva stare anche giorni senza farsi sentire, senza richiamare se gli telefonavi magari solo per concordare i contenuti della trasmissione, per poi vederci in radio come se nulla fosse. Un giorno era felicissimo, l’altro nero che più nero non si può.

«Sì, “in barrique”. Stefano passa giorni e giorni senza uscire di casa, dice sempre che “ha chiuso porte e finestre per risolvere le sue cose”, sono anni che lo dice. Ecco perché mi è uscito il termine “barrique”. Trovo che sia perfetto», risposi a Zoe. Il vino in barrique in realtà è un vino che ha trascorso un periodo di tempo più o meno lungo ad affinarsi in piccole botti in legno di rovere da 225 litri, le barriques, appunto. In italiano, i vini che subiscono questo processo si dicono “barricati” ed io mi ero divertita a traslarne il significato. «Bisogna però che dica a Ste- fano che i barrique non vanno più di moda, ora sono tornati in auge i vini in purezza», aggiunsi ridendo. Le ragazze erano rima- ste sorprese da questo termine enologico abbinato a un uomo e fu così che iniziò il gioco.

«Il mio Stefano, invece, è un “Remueur”, o almeno per me lo è stato», disse Zoe. Il remuer è una delle figure fondamentali per la produzione dello champagne e dello spumante metodo classico: è lui, infatti, che opera il remuage, quel particolare e circostanziato scuotimento a cui vengono sottoposte le bottiglie che abbiano concluso la fase di maturazione. Lo scopo è quello di staccare completamente la feccia dalla parete della bottiglia e condurla in punta, cioè contro il tappo della bottiglia capovol- ta, per poterla poi eliminare col dégorgement. «Stefano a suo tempo mi ripulì di tutta la “feccia” che frequentavo e che avevo dentro, mi portò via, mi fece capire il valore di una laurea, appassionare a quello che stavo studiando, passo dopo passo, giorno dopo giorno». Proprio come il remuer, che con pazien- za e dedizione accudisce le bottiglie, scuotendole e oscillandole senza fretta, dando al vino tutto il tempo necessario.
«Vedi poi come lo hai ringraziato. Piantandolo in asso dalla mattina alla sera dopo cinque anni», osservai ironica. Tutte e cinque scoppiammo a ridere di gran gusto.

«Max invece – proseguì Zoe tra le risa – non so se lo definirei un tipo “Sabler” o uno del genere “Sabrage”».

«Secondo me è un “Sabler”, un bicchiere di champagne da bere tutto d’un fiato, una volta ogni tanto», le rispose Alessan- dra.

«Però potrebbe essere anche un “Sabrage”, perché su Zoe ha sempre avuto l’effetto di una sciabolata», aggiunse Giulia, imitando il gesto a vuoto nell’aria della lama che scorre lungo il collo della bottiglia e con un colpo deciso ne fa saltare il bordo. Una tradizione del periodo napoleonico e dei suoi militari e funzionari francesi, che usavano aprire a sciabolate lo champagne per festeggiare le vittorie conseguite in guerra.

«Quanto siete brave a prendermi in giro», disse Zoe sorridendo.

«Allora propongo un brindisi a Zoe, perché con le sue storie alla fine riusciamo sempre a farci una risata», disse Alice alzan- do il calice. Facemmo tintinnare i bicchieri, serene. Prendere le cose con ironia era una delle qualità migliori che eravamo riu- scite a maturare nel tempo e quelle volte che ci lasciavamo per- vadere dalla nostalgia di avere nuovamente vent’anni, bastava un attimo per spazzarla via, perché l’ironia di oggi e tutto quello che stavamo facendo erano cose ben più preziose di avere dieci anni in meno, un fisico più perfetto e molti meno problemi da risolvere di adesso.

Proseguimmo per tutta la sera con la nostra lista di “etichette”. Ci inventammo il “Riserva”, l’uomo di pregio, sicuramente più raro dei vini definiti con la stessa denominazione, data in fun- zione dell’annata, della cantina di provenienza e dell’invecchia- mento. Il “Goudron”, termine che definisce il profumo tipico di grandi vini rossi invecchiati, era invece un uomo di una certa età, dal fascino inebriante: uno tipo Sean Connery, per intender- ci. Dopo Sabler e Sabrage, il mondo delle bollicine ci dava altro materiale per il nostro gioco. Il metodo champenois, inventato nell’omonima regione francese (la Champagne) nel convento di Hautvillers nel 1600 dall’abate benedettino astemio e vegetaria- no Dom Perignon, si basa su una lentissima rifermentazione in bottiglia seguita da una prolungata maturazione del prodotto a contatto con i lieviti. Fino al 1994, “champenois” era un termine che potevano utilizzare anche i produttori di bollicine italiani, poi un accordo internazionale stabilì che fosse riservato solo alla zona della Champagne: così da noi gli spumanti prodotti in que- sto modo – come il Trento Doc e il Franciacorta – iniziarono a chiamarsi “metodo classico”. Stesso prodotto, insomma, ma con nomi differenti e comunque simbolo di vini di grande qualità e di una fama che ha portato alla nascita di numerose leggende, come quella del bicchiere a coppa che si usava fino a non molto tempo fa per servire lo champagne: si dice sia stato modellato sulla forma del seno, ritenuta perfetta, di Madame de Pompa- dour, l’amante ufficiale di re Luigi XV. Poi c’è il metodo Martinotti-Charmat, più veloce, più idoneo alla produzione di vini spumanti che utilizzano vitigni aromatici o fruttati (Moscato o Prosecco) e che prevede la seconda fermentazione del vino non in bottiglia ma in grandi contenitori di acciaio, detti autoclavi.
Ecco allora che nella nostra enologia applicata, lo “Charmat” era un uomo frizzante, piacevole ma “industriale”, di quelli dai luoghi comuni e dai comportamenti standard, oppure uno che non ti rimaneva impresso, forse perché ancora troppo ragazzo. L’esatto opposto del tipo “Champenois”, elegante, mondano, con grande personalità e mai banale. Il club delle degustatrici chiuse la sua lista con l’uomo “Tannino”, dal carattere pungente e ruvido, che si attenua con l’invecchiamento.

«Come Fabio», aveva detto Giulia. «E Pietro?», pensai tra me e me. «“Champagne” nel suo mondo d’artista, ma “Charmat” se messo gomito a gomito tra noi volgari comuni mortali, che pensiamo a lavorare e a guadagnare a sufficienza per non avere il conto in rosso a fine mese e fare le vacanze senza pagarle a rate il resto dell’anno», mi risposi preoccupata per Giulia.

«Aspettate, c’è anche un altro tipo di uomo che ci siamo di- menticate. È il genere “Madeira”», dissi proprio mentre ci stavamo alzando per pagare il conto e dirigerci verso casa. Le ragazze si fermarono, posarono le loro borsette e si rimisero a sedere.

«Sentiamo un po’, io il Madeira non l’ho mai bevuto né cono- sco bene la storia, quindi proprio non riesco ad associarlo a un uomo», disse Alessandra incuriosita.

«Ma come, qualche mese fa vi ho regalato un librettino sul Madeira. Mi pare di capire che nessuno di voi l’ha letto». Alessandra, Alice, Giulia e Zoe alzarono le spalle con aria innocente e farfugliarono tutte la stessa cosa: «Troppo lavoro in questo periodo».

«Non importa», le interruppi per mettere fine al loro commo- vente tentativo di trovare delle scuse plausibili al fatto che quel libro, a cui io tenevo molto, stava a prendere la polvere sul loro comodino.

«Non importa, adesso cerco di raccontarvi io come è nato il Madeira». Il mitico vino dell’isola di Madera ai suoi primordi era davvero una schifezza, tanto acido quanto leggero e assolutamente privo di personalità. Era un vino immodificabile con le tecniche agricole nel vigneto, racconta Cipresso, né migliorabile con le più ardite tecniche di cantina dell’epoca.

Solo un miracolo avrebbe potuto trasformarlo e quel miracolo arrivò, come spesso capita, per puro caso, quando un anonimo navigatore decise di far stappare una delle bottiglie che stava trasportando.

«Quando tra Inghilterra e Portogallo arriva il tempo della pace, i portoghesi di Madera iniziano a esportare i propri pro- dotti, vino compreso, in tutto l’impero britannico, raggiungendo sia le Americhe che le colonie dell’India e dell’Estremo Oriente. Fu in uno di questi viaggi che qualcuno si accorse che il caldo prima tropicale e poi equatoriale, unito al dondolio provocato dalle onde di mari e oceani, modificava totalmente il Madeira, facendolo diventare quel nettare delizioso che è diventato un mito dal 1600 fino ai giorni nostri».

«Scusa, ma allora come lo facevano? Lo mettevano tutte le volte sulle navi?», chiese Zoe.

«Per secoli, sì. Cipresso dice che i portoghesi capirono in fret- ta il fatto che la temperatura del mare cambia molto lentamente, consentendo un’evoluzione morbida del vino. E capirono presto che servivano due passaggi all’equatore per fargli raggiungere l’eccellenza. Il loro terroir diventarono le navi, tant’è che presero la curiosa consuetudine di battezzare il Madeira con il nome del vascello che lo aveva trasportato».
Una storia affascinante, che aveva lasciato le ragazze attente e con il fiato sospeso per tutto il racconto.

«Ecco, l’uomo Madeira secondo me è un tipaccio, uno di quelli che non ci scommetteresti sopra nemmeno un centesimo, ma che se poi trova la donna giusta si trasforma, si sublima, esplode e diventa meglio di qualsiasi altro che, di primo acchito, pare più promettente e gradevole».
«Questa è la definizione giusta per Max», esclamò Zoe. «Al- tro che Sabler o Sabrage!». Probabilmente aveva ragione, ma Giulia, Alessandra, Alice ed io non riuscivamo proprio a pensare che la donna giusta per Max fosse Zoe. A dire il vero, non pensavamo nemmeno che fosse ancora nata la donna in grado di compiere il miracolo con uno come lui. Ne eravamo convinte anche adesso che quel ragazzo stava tornando a essere un pen- siero fisso per la nostra amica: tutte noi sapevamo che questo avrebbe portato solo un sacco di guai. Per Zoe urgeva una nuova distrazione.

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