Nomisma: fotografia del vino italiano all’estero

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Di fronte ad un consumo interno di vino che nel giro di appena dieci anni è calato del 25%, ai produttori italiani non resta che confidare nell’export. E dopo il primato di vendite oltre frontiera raggiunto nel 2012 – 4,66 miliardi di euro di vini esportati, +6,6% rispetto al 2011 – le stesse imprese sono fiduciose di “stracciare” questo record nel prossimo biennio, non solo contando sul traino dei mercati esteri ormai consolidati (Stati Uniti, Canada, Regno Unito) ma soprattutto sullo sviluppo dei consumi in quelli “emergenti” (Cina, Russia, Brasile e Paesi scandinavi).

E’ quanto emerge dall’indagine Wine Monitor 2013 svolta sui principali produttori di vino italiani e che ha visto la partecipazione di circa un centinaio di aziende per un fatturato cumulato di 1,6 miliardi di euro, il 20% circa del fatturato di settore.

Questa fiducia deriva dai trend di consumo registrati nei mercati esteri. Negli Stati Uniti, in un decennio, il valore delle importazioni di vino è praticamente raddoppiato, passando da 2,6 a 5,1 miliardi di dollari. In Russia, è più che quadruplicato, da 233 milioni a 1,1 miliardi di dollari. In Cina è esploso: le importazioni di vini imbottigliati sono passate da 9 milioni a 1,4 miliardi di dollari.

Ma in questo contesto fatto di molte luci, alcune ombre sembrano segnalare che non tutto va poi così bene. Perché, ad esempio, la quota dell’Italia sull’import di vino imbottigliato della Cina è passata nell’ultimo anno dall’8% al 5,7%? La quasi totalità dei produttori italiani affida i propri vini agli importatori, cedendo in tal modo a terzi le scelte di posizionamento di mercato e di politica commerciale per i propri prodotti, anche quando sarebbe fondamentale presidiare direttamente il paese target, come nel caso dei nuovi mercati “in formazione”, dove cioè i consumatori non sono ancora in grado di scegliere i vini sulla base di un’adeguata conoscenza personale. Ma presidiare direttamente un mercato costa, in termini di risorse finanziarie, umane e strutturali. E in Italia, chi se lo può permettere? I produttori di vino che possono vantare un fatturato superiore ai 50 milioni sono meno di 30, ai quali si deve il 40% dell’export complessivo.

Questo significa che il rimanente 60% del vino italiano esportato avviene ad opera di piccole e medie imprese, operatori cioè che nella maggior parte dei casi non possiedono un export manager o più semplicemente mancano di quella forza commerciale e organizzativa in grado di rispondere in modo efficace alle sollecitazioni che derivano da questi “nuovi” mercati che nella maggioranza dei casi sono lontani decine di migliaia di chilometri dalla sede aziendale, ma il cui peso relativo nel commercio internazionale è destinato a crescere sempre di più. Un dato su tutti: nel 2002 i BRIC (Brasile, Russia, India e Cina) incidevano per appena il 2,2% nelle importazioni mondiali di vino, oggi questa rilevanza è arrivata a superare il 9%.

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