E una donna ricreò il vino dall’argilla

 

 

Ecco qui il mio articolo apparso il 26 marzo sullo speciale Vinitaly del Corriere della Sera e che riguardava Elisabetta Foradori (in copertina dello speciale una foto legata al mio servizio).

Niente ritorno al passato e tantomeno – sia mai – seguire le mode. Per Elisabetta Foradori, una delle più affascinanti e conosciute donne del vino italiano e forse anche del mondo, le anfore in cui ha deciso di vinificare tre dei suoi nuovi vini «non sono niente di magico o di esoterico: sono semplicemente dei contenitori speciali, in grado di trasportare tutta l’energia della terra e dell’uva». Sarà anche così, ma a sentirla parlare, le sue anfore (tinajas, per la precisione, che acquista in Spagna «perché in Italia la manualità necessaria per produrle si è persa») diventano simboli e fanno pensare agli Stargate, i dispositivi immaginari dell’omonimo film di Roland Emmerich che permettono il trasferimento quasi istantaneo di materia ed energia. Così il vino, e soprattutto il Teroldego di cui la Foradori è l’interprete più accreditata, raggiunge la sua compiuta perfezione: «Gli ingredienti sono molteplici – spiega Elisabetta – perché le tinajas da sole non bastano. Conta molto anche il tipo di uva che ci si mette dentro e la mia è sana e ha vita, perché frutto di dieci anni di biodinamica. Tutto questo, abbinato alla capacità dell’argilla di qualità di trasferire l’energia buona al vino, porta a far vivere il passaggio fondamentale della fermentazione, che è una morte e una rinascita dell’uva, e il risultato per il consumatore è un’esperienza di assoluta purezza». Per questo nelle sue tre etichette prodotte in una sessantina di anfore, ovvero i Teroldego Morei e Sgarzon e la Nosiola Fontanasanta – vitigno autoctono trentino assieme al Teroldego -, si sentono tutti i caratteri del territorio e della terra, o se vogliamo dirla come gli esperti, tutto il terroir. «L’argilla è terra, è fatta della stessa materia da cui nasce la vigna, per questo non pone filtri al vino, a differenza di acciaio, cemento o legno», sottolinea la Foradori, che per i suoi vigneti ha messo al bando sostanze chimiche di sintesi, insetticidi e concimi.

Abituato alla possenza del suo Granato, uno dei vini più blasonati d’Italia 100% Teroldego vinificato in barrique, come ha reagito il pubblico allo stile del tutto particolare dei prodotti in anfora? «Di solito, non dico mai che sono fatti in tinajas, perché non voglio anteporre questo tipo di vinificazione (di cui oggi si parla tanto, ma in pochi sono in grado di farla con precisione) al risultato enologico che la gente si trova nel bicchiere. Posso dire, però, che quasi tutti, esperti e non, sentono in questi vini un impulso di vita e un messaggio “altro” che li colpisce profondamente».

Il campo base di Elisabetta Foradori è la Piana Rotaliana, 400  ettari di pianura alluvionale del torrente Noce incastonati tra le montagne a nord di Trento e a due passi dal confine con l’Alto Adige.  È questo il regno del Teroldego, vitigno antico e avvolto da molte leggende – la più affascinante lega la sua nascita al sangue di un drago ucciso da un cavaliere -, che affonda le radici nei sassi dolomitici, calcarei, porfirici e granitici del territorio.  Un vitigno selvaggio non facile da domare, al quale Elisabetta ha donato nuovi splendori, effettuando selezioni massali  e da seme, fino al riconoscimento di 15 biotipi: il Teroldego oggi rappresenta l’80% della produzione della sua cantina, che conta su 26 ettari di vigneto e in totale sforna ogni anno circa 160mila bottiglie (90mila di Foradori, 20mila di Granato, 20mila di Fontanasanta Manzoni Bianco, 8mila di Fontanasanta Nosiola e 10mila per ciascuno dei vecchi vigneti di Teroldego Sgarzon e Morei).  In ognuna di esse si ritrova la femminile suadenza del gusto, la passionale generosità del frutto, la virilità dei profumi, e si riconosce il tocco lieve e raffinato di una donna orgogliosa della sua vita contadina, a contatto con le stagioni e con i ritmi lenti della natura. Che vanno assecondati, e mai forzati. Per questo Lady Teroldego è sempre in costante evoluzione, alla ricerca della quadratura del cerchio.

«Con la biodinamica prima e le tinajas poi, ho vissuto una piccola rinascita personale. Ho capito – racconta la Foradori –  come i processi naturali abbiano una forza che va oltre la tecnica, perché quando si uniscono le energie positive si ha un risultato che va ben oltre la sola trasformazione: è creazione, semplice e dalle mille forme al contempo. Ecco perché questi vini una volta che sono nel bicchiere continuano ad evolversi e nel tempo di finire una bottiglia sembra di averne degustato dieci tipologie diverse…». E sembra, anche, di essere di fronte a Sakti, che nel mito cosmologico indiano rappresenta la Natura, l’energia primordiale, il principio femminile creativo, molteplice e dinamico, generatore dell’universo. Eppure è semplicemente vino.

 

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